Il libro di Marco Belpoliti tocca vari aspetti del tema del terrorismo suicida ed è interessante per la sua trasversalità rispetto a varie discipline quali psicanalisi. letteratura, filosofia, …. consentendoci un approccio alla problematica in un modo quanto mai articolato e interessante. Il tutto corredato da una ricca bibliografia distinta per settori, un invito alla lettura decisamente accattivante.
L’autore affronta nel corso del libro una serie di temi raggruppati attraverso una classificazione personale. Iniziamo con “l’eccesso”.
Dopo “I versetti satanici” di Salman Rushdie il libro “Sottomissione” di Houellebecq parla della seduzione della violenza in un paese come la Francia che ha fatto della libertà la sua bandiera. Il romanzo di Houellebecq viene visto come una sorta di sintomo di quanto accaduto e ha il merito di dare forma ai pensieri segreti, ovvero di portare alla luce l’Intreccio di angosce e desideri che agitano gli occidentali. In entrambi i casi, terrorismo e opera di Houellebecq, l’anima di tutto è l’eccesso.
Belpoliti continua poi con la spiegazione di “chi sono i terroristi suicidi” attraverso una citazione di Camus che ne “L’uomo in rivolta” scrive che è il suicidio stesso la strada che permette all’attentatore di superare gli interdetti che proibiscono di uccidere uomini e donne innocenti.
Sempre Camus spiega che da un punto di vista psicologico il suicidio si giustifica da sé. Il terrorismo suicida è psicologicamente più forte dell’attentato “ordinario”.
La purezza è il primo principio che lo guida ed è il suo obiettivo primario.
Nella nostra epoca è la frustrazione dei giovani tra i 15 e i 25 anni che vivono nelle periferie parigine riceve risposte alla loro inadeguatezza, l’ascensore del narcisismo li conduce in alto. A uno psicanalista di origine tunisina Fehti Benslama, che opera nelle banlieue parigine, uno dei giovani ammette “amo odiare, mi dà tanta forza”. Se ciò non basta a farne dei terroristi interviene la condizione adolescenziale che è uno stato oggi molto più protratto che in passato. Attraverso i social network i giovani si radicalizzano e attraverso questo passaggio recuperano l’identità abbandonata dai loro genitori. Al prezzo di un conflitto tra i giovani maschi e la figura paterna. Il terrorista jihadista ha messo nel conto che il suo sacrificio deve essere contestuale all’omicidio che vuole realizzare. I reclutatori convincono i giovani che solo morendo potranno sopravvivere, passare in una vita immortale.
Un punto saliente è costituito dagli elementi fondamentali per la costruzione delle storie dei terroristi: l’umiliazione e la sofferenza subite dai musulmani; l’impotenza dei governi islamici complici delle potenze occidentali e infine la vittoria inevitabile dell’Islam. In questo story-telling cruciali sono i video testamenti dei martiri.
Nel capitolo “Il martirio nell’Islam”, pur con tutta la difficoltà che lo stesso autore ammette a capire cosa ci sia nella mente di un terrorista, Belpoliti cita un teologo iraniano Ali Shariati ispiratore della lotta contro lo Scià per il quale “per un essere umano morire equivale a garantire la vita della comunità. Il suo martirio è un mezzo per conservare la fede”. Per rimanere nella nostra cultura interessante è il richiamo a Erich Fromm, “Fuga dalla libertà”, in cui il seguace e il martire raggiungono la propria autonomia nella dipendenza assoluta.
Sia nella cultura cristiana originaria sia in quella islamica il martire è un testimone della fede. Komeini nel 1984 permette l’arruolamento di ragazzini con più di 12 anni di età. Essi marciano quindi con le “chiavi del paradiso” contro l’esercito iracheno e muoiono a migliaia. Secondo lo psicologo israeliano Mordechai Rotemberg l’Islam estremistico ha indotto nei suoi fedeli “una resistenza metafisica alla paura della morte grazie soprattutto alla particolareggiata enumerazione ed esaltazione delle ricomprende future”.
L’orrore che ci viene proposto è quello che i terroristi ci impongono nei loro video che mostrano la decapitazione degli ostaggi. Da oltre 2 secoli l’Occidente ha abbandonato lo spettacolo dello squartamento dei corpi come punizione esemplare. Anche le condanne a morte negli U.S.A. prevedono il ricorso a un’iniezione letale, sistema indolore e privo di spettacolarità. In Europa le decapitazioni degli ostaggi nelle mani dell’ISIS sono state vissute come un ritorno al passato, a pratiche medievali, barbariche. Nonostante tutto questo emerge un’attrazione “patologica” verso la visione delle stragi, una sorta di “voyeurismo” come forma di perversione di massa, inarrestabile e incontrollabile”.
Degna di rilievo infine tra gli altri la riflessione che Belpoliti dedica al “brand del terrore”.
Citando l’opera “Branding terror” di Artur Beifuss e Francesco Trivini Bellini Belpoliti ricorda che “senza il brand molte aziende non esisterebbero”. Detto questo l’esame dei sessantacinque simboli raccolti nel volume evidenzia che molti dei marchi del terrorismo internazionale non sono diretti all’Occidente. La maggior parte delle schede riguarda i gruppi islamici che privilegiano marchi aggressivi, con scimitarre, fucili d’assalto, bombe a mano, con un’estetica non certo accattivante. I simboli di riscossa politica che hanno dominato la scena degli anni settanta e ottanta lasciano spazio a loghi militari, simboli di reparti di un esercito che ha nel verde dell’Islam il colore dominante.
Nella corsa alla creazione di loghi accattivanti i produttori commerciali si spostano sempre più verso immagini leggere e accattivanti (la mela di Apple, l’uccellino di Twitter, l’arcobaleno di Google), i terroristi che stiamo esaminando si ispirano piuttosto a iconografie tardo medievali, premoderne. Belpoliti introduce qui un parallelismo tra i loghi elaborati e il contenuto ideologico della battaglia condotta dai terroristi islamici. La tradizionalità della forma grafica così “come del resto gli eventuali esiti politici delle loro battaglie ancora in corso”.