Innanzi tutto intendo scusarmi con i lettori, perché nel precedente pezzo pubblicato in questa rubrica, Social Corporate Responsability: non sarà solo uno slogan?, ho involontariamente invertito il tradizionale ordine delle parole, come indica chiaramente anche l’acronimo CSR, ovvero Corporate Social Responsability.
Se in quel pezzo ci siamo posti il dubbio che la CSR fosse in alcuni casi strumentalizzata per accontentare il cliente etico, questa volta ci chiediamo se, accuratamente gestita, non possa rappresentare l’occasione giusta per far evolvere l’intero modello di un’organizzazione, ridefinendone profondamente le strategie a lungo termine e, conseguentemente, ricollocandola sul mercato in modo più stabile e solido nel tempo.
Come?
Rimodellando in modo positivo ed apprezzabile la reputazione, quella reale, basata su elementi fattivi, a prova del consumatore più scettico o imbufalito oppure del committente più esigente.
Se gli uomini che si occupano di security percepissero una certa distanza tra il tema che stiamo trattando e le faccende delle quali quotidianamente si occupano, vorrei avvisare: c’è più osmosi di quanto si possa credere.
E se qualche specialista contestasse un argomentare troppo generalista, quasi evangelico – specie in termini di sicurezza -, farei notare che l’evangelizzazione si può interpretare in due modi differenti: un atteggiamento commerciale per tirare su con la rete quanti più tonni possibile – tipico di alcuni vendor -, oppure come il tentativo di ridurre il divario culturale tra uno strato uniforme di gente e le punte di diamante che viaggiano in avanscoperta. E di questa seconda opzione, ce n’è veramente tanto bisogno. Ricordiamo sempre che la sicurezza di un sistema è pari a quella del suo anello più debole.
La conoscenza si affronta molto spesso in modo clusterizzato, frammentando gli scenari delle competenze. Invece sarebbe opportuno abituarsi una volta per tutte a farsi contaminare, a provare anche il fascino di una vera convergenza.
In secondo luogo non bisogna dimenticare che la perfezione non è di questo mondo e che l’utopia trascina alla follia.
Allo stesso modo un modello non può essere perfetto, né vi può aspirare. Può invece tendere ad un’evoluzione costante attraverso il miglioramento continuo. Tradotto in parole povere, facciamo e sperimentiamo, sbagliamo, rileviamo gli errori, li correggiamo, ne analizziamo le cause e le eliminiamo per non ricadere nello stesso sbaglio.
Immaginiamo che un’organizzazione abbia creato intorno a sé una percezione negativa, che operi in un settore di mercato la cui reputazione è ampiamente usurata dalle pratiche adottate dalla maggior parte dei propri competitor, oppure che abbia semplicemente necessità, per ragioni commerciali, di potenziare la propria immagine.
Per analizzare le cause dell’attuale percezione, potremmo utilizzare il diagramma di Ishikawa, apportando alcune modifiche alle quattro lische principali. Sostituiamo alle classiche voci macchine, manodopera, metodi e materiali, l’ingegnerizzazione, le persone, la compliance e l’infrastruttura.
Si spalanca un ampio orizzonte, composto di una varietà incredibile di elementi eterogenei. Nella seconda parte di questo pezzo avremo modo di declinarne gli elementi in modo più dettagliato. Nell’attesa, spazio alla fantasia! Un approccio visionario potrebbe restituire gradevoli sorprese.