Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori è ciò che si scrisse di noi italiani, fissando quest’idea nel tempo, a cavallo tra la fine degli anni ’30 ed i primi anni ’40 sulle quattro testate del Palazzo della Civiltà Italiana, situato nel quartiere dell’EUR a Roma.
Ed indistintamente dal regime politico sotto il quale nacque, questa rappresentazione gode di un fascino smisurato, che forse ci eleva ad un livello di benevola intraprendenza al quale abbiamo dimenticato di poter e saper arrivare.
Oppure non lo abbiamo propriamente dimenticato, mi correggo. Ma certamente abbiamo imparato ad utilizzare l’ingegno per scopi meno benevoli. Se fossimo capaci di impiegare le energie, che ai giorni nostri vengono spese per aggirare le norme e truffare lo Stato, nel tentativo di rispettarle e far prosperare la nostra società, forse otterremmo risultati differenti dallo sgradevole panorama nazionale che ci si prospetta di questi tempi.
A proposito di startup innovative e accessi ai finanziamenti agevolati (europei o regionali che siano), i requisiti definiti per le agevolazioni non vengono percepiti come cardini di supporto ad alcune aree sociali identificate come svantaggiate, bensì come semplici paletti da aggirare.
Se ad esempio i territori del sud sono avvantaggiati nell’accelerazione delle pratiche oppure nella disponibilità di finanziamenti a fondo perduto, è perché hanno necessità di un input positivo, di un supporto nel rilancio dell’economia.
Eppure c’è qualcuno che crede non ci sia nulla di male nel creare sedi fantasma, depredare i fondi, e l’attività mantenerla invece verso il nord, dove i contatti commerciali sono certamente più fluidi. Tanto i controlli vengono una sola volta, basta farsi trovare.
E poco importa che quegli stessi fondi economici vengano erogati anche per essere ridistribuiti sullo stesso territorio sotto forma di prestazioni lavorative. Meglio mettersi in tasca il più possibile, aggirando i deboli meccanismi regionali e statali di verifica, ed eventualmente investire qualcosina in aree dove non è difficile trovare profili professionali più appetibili; attenzione non più competenti, ma più scaltri, inclini alla difficile arte della comunicazione, della trattativa e, perché no, della manipolazione.
Coloro i quali fondano le proprie strategie di affari su questi ragionamenti non son degni di essere chiamati imprenditori, piuttosto sono predatori, avvoltoi.
Luigi Einaudi scrisse degli imprenditori: “E’ la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno.
Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno.
Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie ed investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi“.
E non è una giustificazione valida neanche quella di motivare la necessità di sopravvivenza dell’imprenditore puntando il dito contro la classe politica corrotta, contro un sistema fiscale certamente non agevole, contro il luogo comune del “tanto siamo in Italia”.
L’Italia è la nazione fatta dagli italiani, alcune menti eccelse, alcuni imprenditori animati a configurare nuovi modelli di business, fondati sull’etica, sulla responsabilità, alcuni uomini politici illuminati da ideali, alcune persone disposte a rigettare una volta per tutte questo maledetto sistema clientelare che divora, decennio dopo decennio, la nostra reputazione, la nostra chance di cambiare marcia, la speranza di essere ancora un Paese di fatti piuttosto che di regole e regolamenti da schivare.