Chi governa un mezzo di comunicazione oppure ne è protagonista – e ricordo che con i social media ognuno è editore – acquisisce un potere che deve essere gestito in modo consapevole e responsabile, poiché comunicando, anche se implicitamente o indirettamente, fa anche informazione.
Ma chi si espone alla comunicazione (e all’informazione) dovrebbe perseverare costantemente nell’esercizio della propria capacità individuale di giudizio. L’informazione si articola in una condivisione di fatti oggettivi e nel tentativo di collocarli in un panorama sociale, fornendo anche delle interpretazioni al riguardo.
Di contro, chi la recepisce è chiamato a verificare le informazioni fornite – ai giorni nostri disponiamo di così tante possibilità rispetto al passato – e riformulare il proprio processo logico per verificare se le interpretazioni recepite sono plausibili oppure no.
Eppure non è raro assistere a vere e proprie forme di isteria di massa, chiaramente imputabili all’omissione dei criteri sopra riportati, che coinvolgono anche aspetti importanti come la tutela dei dati personali e alcune questioni ad essa correlate.
Più nello specifico vorrei far riferimento a tre questioni per le quali ho riscontrato in rete un bel po’ di fermento, forse eccessivo, ed in alcuni casi ingiustificato.
La prima questione riguarda che cosa è successo dopo la sfuriata di Luciana Littizzetto contro i call center nella puntata del 22 maggio di Che tempo che fa, condotta da Fabio Fazio. La Littizzetto non ha detto una sola parola formalmente inesatta ma d’altro canto, generalizzando e asserendo che i call center “dei dati sensibili ne fanno carne di porco” (cit. L. Littizzetto), ha dato il la perché si accendesse una polemica assurda sulle attività di marketing in genere e la tutela dei dati personali.
Allora mi chiedo quante persone, incluse quelle che adesso stanno lanciando in rete anatemi contro il management dei call center simili a quello della Littizzetto (“che gli crescano le ortiche nelle mutande” – cit. L. Littizzetto), abbiano effettivamente letto le informative alla privacy dei contratti sottoscritti e siano consapevoli di quali consensi abbiano prestato.
E’ vero, in molti contratti il corpo del carattere scende drasticamente ai limiti della leggibilità quando si parla di privacy, per non dire di quando ci arrivano sotto gli occhi modelli con tutte le crocette di consenso già compilate.
Ma è altrettanto vero che, nel ruolo di consumatori, dobbiamo attivare la capacità di controllo e la giusta fermezza in fase di sottoscrizione di un contratto, non solamente per le condizioni economiche – sono quelle che ci preoccupano nell’immediato – ma anche per le condizioni relative alla privacy.
In seconda battuta, qualsiasi trattamento al quale si è prestato un consenso iniziale può essere interrotto a fronte di una richiesta formale da inoltrare al titolare. Anche in questo caso non è difficile intravvedere un po’ di debolezza degli interessati. Quando un prodotto o un servizio non funziona così come ci aspettiamo che faccia, siamo subito pronti a reclamare, ma quando si tratta di aggiustare il tiro sui consensi prestati, la fiacca non tarda a manifestarsi. Nella maggior parte dei casi – e la rete ne dà ampia testimonianza – è attività preferita quella di agitarsi verbalmente protestando nella folla piuttosto che scrivere poche righe all’indirizzo e-mail corretto.
E con tanta confusione, sapete come va a finire?
Che le aziende serie, che organizzano le proprie attività promozionali rispettando alla lettera le volontà (forse inconsapevoli) manifestate dagli interessati, finiscono per stare accanto a quelle che delle regole definite dal Garante se ne infischiano. Ed oltre al danno anche la beffa, visto che a collocarle in quella posizione immeritata spesso sono proprio i tuttologi, maniaci della privacy che, un po’ per leggerezza, un po’ forse presi dall’emozione dell’acquisto che stanno compiendo, non capiscono bene, né sentono la responsabilità di farlo, cosa c’è scritto nell’informativa che sottoscrivono prestando il consenso.
Nella seconda parte di questo pezzo, online tra qualche giorno, avremo modo di discutere di altri due casi simili che riguardano Facebook.