Quante meravigliose opportunità ha offerto, e seguita a farlo, lo sviluppo tecnologico al quale assistiamo. Oggetti intelligenti e connessi, linguaggio naturale e digitale uniti in simbiosi, informazione e controinformazione per tutti i gusti, comunicazione perpetua senza più gap di tempo né spazio, quantità infinite di informazioni (più o meno razionalizzabili) per interpretare presente e futuro. Tutto funziona bene e migliora, si evolve, a ritmo sempre più incalzante.
C’è solo un problema: meglio non badare troppo alle macroscopiche falle sulla sicurezza. Perché se ci dovessimo fermare a riflettere sul tema, potremmo arrivare all’amara conclusione che una gigantesca infrastruttura concettuale e fisica è edificata sulle sabbie mobili, pronta a crollare da un momento all’altro con potenziali effetti economici e politici devastanti.
Si dibatte molto su questo tema (in particolar modo della sicurezza cibernetica) e l’informazione al riguardo prolifera di giorno in giorno: basti pensare, ad esempio, ai recenti gossip che investono la CIA.
La soluzione spesso più acclamata – specie in quest’ultimo periodo nel quale l’importanza del ruolo delle persone sembra stia riguadagnando una centralità a discapito delle macchine – è la competenza. Ovvero, saper fare! Così tutte le parti in gioco si mettono all’opera per progettare e realizzare i nuovi salvatori: quelle figure professionali che saranno in grado di prevenire, arginare e reagire agli attacchi informatici, salvando aziende, infrastrutture critiche e addirittura interi Stati dal possibile disastro.
Volendo fornire una definizione precisa di competenza in termini di gestione d’impresa, si potrebbe identificarla con un processo continuo che riguarda formazione, informazione, verifica di efficacia della formazione e attribuzione formale di un ruolo. Ma siamo certi che questi parametri, per altro un po’ ingessati rispetto alla mutevolezza del contesto, rappresentino degli elementi strategici efficaci? Manca invece una porzione sostanziale, in buona parte trascurata: la consapevolezza.
Questa si fonda, sempre in termini di gestione d’impresa, sulla condivisione di una strategia comune, sulla comunicazione chiara degli obiettivi (misurabili) da perseguire e sulla conoscenza delle conseguenze derivanti dalla mancata attuazione di una delle regole condivise. Insomma, saper fare senza sapere bene in che direzione andare lascia il tempo che trova.
E se non si sa bene dove si va, allora diventa discutibile anche la necessità di progredire così tanto e rapidamente. Quando si identifica un rischio, troppo elevato rispetto alla soglia tollerata, si è liberi di considerare la mitigazione oppure il rigetto: gestirlo è troppo pericoloso o costoso, quindi si abbandona l’attività.
Non sarebbe più sicuro mettere in fila una schiera di cittadini consapevoli, tralasciando quest’esigenza impellente di competenza che prende la mira un po’ alla rinfusa?
Tutta l’attenzione è ormai focalizzata sulla sicurezza, ma abbiamo prima la certezza che tanto digitale possa portare ad un cambiamento lineare, evolutivo? Un cambiamento da non confondere con quelli ai quali ci siamo abituati sino ad ora: un giro giro tondo di orpelli immateriali, in alcuni casi inutili e spesso più dannosi che efficaci.
Gli obiettivi dell’Europa 2020 erano stati definiti. Il digitale doveva essere lo strumento per conseguirli. E la sicurezza ha senso per tutelare lo strumento. Ma in Italia sono mai stati comunicati al cittadino? No. Si è preferito nascondere il rischio dell’insuccesso, come spesso accade, dietro disegni di legge, provvedimenti, tante parole da comizio elettorale e pubblicità avanguardistiche poco attinenti con la realtà.
Vogliamo cominciare a dire che in termini di clima / energia, nonostante le infinite possibilità che offre l’IoT in ambito di smart city, non abbiamo concluso un bel niente? Vogliamo discutere dell’integrazione sociale tra Stato e cittadini e del pauroso flop dei progetti di identificazione digitale e gestione dei servizi pubblici? E per terminare, possiamo dire una volta per tutte che l’istruzione digitale produce una generazione cerebrolesa che non è in grado di interpretare il mondo in cui vive ed il proprio ruolo nella società?
Su queste basi, è possibile che l’ostinazione nella ricerca incessante del digitale e della sua sicurezza sia smisurata rispetto ai potenziali benefici? E’ possibile che possa risultare più costruttivo tornare a schierare cittadini veri, consapevoli, invece di cittadini digitali inconsapevoli anche se in alcuni casi competenti?
Ma forse questo ragionamento ha solo un lieve sentore etico e sociale; nulla a che vedere col giro di miliardi che ruota intorno all’illusione di un cambiamento.