I motivi per i quali torniamo a parlare di ISIS nascono da due considerazioni. La prima riguarda la necessità oggettiva di aggiornare l’analisi del contesto, compiere le opportune valutazioni dei rischi, che le aziende devono (è un obbligo legislativo) prendere in considerazione per proteggere i propri dipendenti, e di mettere in campo nuove contromisure. La seconda riguarda il ruolo dei media e dell’informazione nelle vicende legate agli attentati di matrice terroristica.
Si apprende da un’importante testata nazionale, con un pezzo del 29 luglio intitolato la diaspora dell’Isis in Europa […], che secondo il capo dell’FBI, in un faccia a faccia con il Presidente Obama, lo scontro rischia di spostarsi in Europa a causa dei successi delle coalizioni anti Isis in Iraq e in Siria. Uno scenario futuro ancor meno rassicurante rispetto a quello con il quale ci siamo dovuti confrontare in questi ultimi mesi. Ma, proprio a questo proposito, non è ancora chiaro se si stia parlando di un gruppo di disperati – qualcuno li chiama lupi solitari – che inneggiano Allah per giustificare terribili omicidi – sui quali ovviamente l’ISIS ci tiene a mettere il cappello per favorire il marketing del terrore – oppure se siano cellule terroristiche che agiscono in modo effettivamente coordinato, supportando un ampio progetto. Per l’attentato di Nizza non mancano poi neanche le ipotesi complottiste, secondo le quali ciò che i media hanno riportato sarebbe tutta una messa in scena (si vedano i numerosi video in circolazione su YouTube che evidenziano particolari effettivamente difficili da spiegare).
Un’altra importante testata nazionale, sempre il 29 luglio, posta un video sul primo RISC Training course destinato agli operatori dell’informazione in zone di guerra: simulazione di conflitto, fumogeni, armi finte. Ma in rete, ed in alcuni articoli di altre testate giornalistiche, non mancano anche numerosi prontuari per difendersi in caso di attentato.
Il problema è che alcuni di questi sono fai-da-te, altri inneggiano alla reazione offensiva repentina (e pericolosissima) prima del disastro, altri ancora sembrano più il manuale di un videogioco di guerra che qualcosa da prendere in considerazione. Tutto ciò per sottolineare che anche il contesto interno all’organizzazione potrebbe essere cambiato in modo silente attraverso le influenze che questo materiale può ingenerare nei dipendenti. E di questo chi si occupa di sicurezza ne dovrebbe tener conto. La paura, unitamente a un’ossessione mediatica, può generare conseguenze gravissime (per singole persone o per interi gruppi) a seguito di azioni incontrollate dovute anche ad un’errata valutazione dello scenario. Cosa succederebbe se anche una sola persona scambiasse una rapina per un attentato?
Già sono veramente pochi i Documenti di Valutazione dei Rischi ed i relativi piani di gestione dell’emergenza – che nascono sotto il cappello del Testo Unico sulla Sicurezza – a tenere conto del fattore terrorismo. Possiamo quindi immaginare quanti di questi riescano ad assimilare in modo efficace le variazioni di contesto esterno ed interno delle quali abbiamo parlato.
E se il Responsabile della Sicurezza per la Prevenzione e Protezione si dovesse sentire fuori luogo ad affrontare questo tema, allora chi lo dovrebbe fare?
Forse sarebbe più indicato il Business Continuity Manager, maggiormente predisposto a ragionare in modalità what if e a mettere in pratica lucidamente tutti i passaggi studiati a tavolino?
Insomma, l’importante è che qualcuno lo faccia, perché a forza di fare accademia sulla compliance, in caso di necessità potrebbe finire male e, certamente peggio, se tutto è affidato al buon senso individuale che, in un momento di panico, decade nella maggior parte dei casi.