In questo breve articolo vorrei andare un po’ più a fondo sulla business continuity che, secondo alcune organizzazioni, sembra che sia sinonimo di ridondanza di assets (persone, edifici, attrezzature, ecc., indispensabili alla normale operatività, da utilizzare qualora siano indisponibili quelle primarie) e che, oltretutto, “ingessa” una organizzazione attraverso rigide procedure, politiche e regole.
Se ciò fosse vero, in questo momento nel quale le aziende porgono estrema attenzione ai costi ed operano modifiche organizzative ai fini di essere dinamiche ed agili, vorrebbe dire che tale metodologia, oramai collaudata da anni in tantissime organizzazioni, sarebbe da buttare via.
Io preferisco innanzitutto affermare che il grande vantaggio della business continuity consiste nell’indurre i responsabili dei processi operativi e di business a ragionare in maniera olistica, e non per silos, su possibili eventi che possano ostacolare la produzione ed i servizi, in quanto ciò sarebbe estremamente grave proprio in questo momento di alta competizione, di grandi sfide e grandi e rapidi mutamenti.
Seconda osservazione: qualora, nel ragionare sui processi di business valutando l’impatto economico, reputazionale (anch’esso è monetizzabile), e legale, al crescere di una eventuale interruzione nel servizio, si dovessero individuare alcuni processi che diventano altamente critici in un tempo che non consente di poter ripristinare il servizio o riprendere la produzione con i mezzi e tempi a disposizione, l’organizzazione ha a disposizione una o più opzioni: accettare il rischio preparandosi in anticipo ad affrontarne le conseguenze, oppure trasferire il rischio a terzi (es.: outsourcing, polizza assicurativa), oppure predisporre misure preventive opportune in modo da limitare i danni e poter ripartire nel più breve tempo possibile ad un livello di servizio accettabile.
Da ciò si capisce che la risposta è estremamente articolata e non può essere banalizzata come qualcuno afferma. Inoltre, la reazione cambia al mutare degli scenari e della organizzazione.
Per quanto attiene il presunto “ingessamento” dell’azienda, cito quanto McKinsey afferma in un suo articolo: «molte grandi aziende diventano burocratiche perché le regole, politiche e i livelli di management sono sviluppati per catturare economie di scala che alla fine minacciano la possibilità di muoversi velocemente». La business continuity richiede rigore e fantasia, una visione olistica dei processi, cooperazione e collaborazione fra reparti e specialità, agilità di intervento, continuo aggiornamento in base all’evoluzione dell’impresa, esercitazioni e test.
E’ interessante, a proposito dell’agilità, quanto suggerisce McKinsey a questo proposito, essendo ciò in linea con i requisiti della continuità operativa: «una organizzazione oggigiorno deve poter avere una struttura stabile (“backbone”, spina dorsale) che sia resiliente, affidabile ed efficiente e, allo stesso tempo, deve organizzarsi per essere dinamica, ossia, veloce, facilmente adattabile, leggera».
La business continuity può essere gestita proprio con una struttura agile.
Per concludere, la presunta “ingessatura” di una impresa dipende da come essa è organizzata e condotta. La business continuity ha il vantaggio di far ragionare le persone, preparare tutti a come intervenire qualora dovesse accadere un disastro (e soprattutto come gestire la comunicazione verso l’interno e all’esterno dell’azienda), costringe a vedere l’azienda come un’unica organizzazione con obiettivi condivisi. Insegna che la reazione ad un incidente deve essere immediata, le decisioni devono essere prese velocemente, e che precedenti esperienze fanno storia.
Altrimenti l’incidente si trasforma in un disastro e l’azienda, dopo essere sopravvissuta per un breve tempo, chiude i battenti.