Sembra che, dopo tanti avvisi da parte di pochi volenterosi, finalmente il tema della cybersecurity sia andato a finire sotto i riflettori. Era ora, anche perché alcune fonti asseriscono che le perdite economiche derivanti dai crimini informatici hanno da qualche anno raggiunto e sorpassato il volume d’affari globale quantificato per i traffici di droga nel mondo.
E da quando anche la Pubblica Amministrazione ha deciso di attivarsi al riguardo, i media ci vanno a nozze. Blog indipendenti di settore, quelli affiliati a gruppi editoriali rilevanti, riviste specialistiche e non, ed ora persino i telegiornali non fanno altro che impilare una raffica di notizie sul cybercrime, fatterelli e presunte indiscrezioni incluse. Insomma, pur di parlarne, viene in molti casi tollerato un certo margine d’approssimazione. Poi ci sono like, condivisioni e commenti vari sui social network: apriti cielo!
La cybersecurity pone tra i suoi obiettivi primari quello di generare, stimolare ed accrescere la consapevolezza circa l’importanza del ruolo delle persone nella lotta al cybercrime.
C’è però da chiedersi se questa tendenza mediatica possa risultare funzionale al conseguimento dell’obiettivo. In realtà, si ha la sensazione che questa frequenza d’informazione non produca alcun risultato: piuttosto rischia di facilitare il disorientamento.
Per altro, non a caso, parlo di frequenza e non di quantità: perché realmente per giorni siamo esposti sempre alle stesse, scarse, notizie che si ripetono incessantemente sotto il cappello di titoli differenti. In aggiunta, notizie di questo tipo, per diventare funzionali al proprio scopo, hanno necessità di un minimo di rielaborazione ed interpretazione.
Così possano essere utili alle persone, affinché riescano a configurare una propria visione quanto più vasta e completa possibile.
E non ci raccontiamo la storiella che la notizia, per sua definizione, è solamente un rapporto sui fatti. Nel campo della politica, i media adottano ampie licenze a riguardo, interpretando anche approfonditamente, in funzione degli interessi connessi.
Infine, sempre nell’ambito della sicurezza, siamo certi che i media dispongano di giornalisti veramente preparati a trattare questi temi specifici? Come ce ne sono di specializzati in finanza, in politica, in sociologia, c’è qualcuno adeguatamente specializzato per parlare di sicurezza? Sulle riviste e blog tematici sì. Sono in grado di produrre e comunicare contenuti veramente utili.
Peccato che si perdano nel mare magnum del flusso incessante d’informazione, per di più discriminati a causa di un’autorevolezza non sempre recepita dai lettori non del settore.
Da qualsiasi parte si prenda il discorso, si torna sempre allo stesso punto: bisogna trovare un criterio per ridare all’informazione, in senso esteso, una sua dignità. Come? Definendo le regole adeguate per creare un filtro appropriato ai pubblicisti qualunquisti, senza competenze né etica, che privilegiano i click per minuto sugli annunci pubblicitari, piegando il valore della notizia alle esigenze di web marketing.
I pubblicisti seri invece dovrebbero fare uno sforzo per mettere fine alle frasi sensazionalistiche e generaliste, ai decaloghi for dummies, alle poco appropriate notizie (pubblicitarie) che riguardano i principali vendor di prodotti tecnologici nell’ambito del business for consumer.
Che questa sia la formula giusta per ridare ordine e il valore che merita alla questione? Ce lo auguriamo, perché l’alternativa è solo tanto fumo senza che dell’arrosto ve ne sia più traccia.