La giurisprudenza si è soffermata più volte, nel corso degli anni, sull’analisi delle conseguenze civili e previdenziali di un infortunio o della morte di un lavoratore sul luogo di lavoro ma raramente un dibattito serio ed approfondito è stato speso per parlare dei lavoratori che perdono la loro vita all’estero.
Quindi non bisogna essere complice silente verso un fenomeno sottovalutato e troppo spesso privato della giusta considerazione: la tutela e la garanzia dell’incolumità dei lavoratori italiani, impegnati per spirito di servizio in Paesi caratterizzati da instabilità politica e sociale, quando non dilaniati da venti di guerra.
Nelle prime ore della mattinata del 19 settembre 2016 in Libia, nei pressi della città di Ghat, sono stati rapiti i cittadini italiani Danilo Calonego e Bruno Cacace, dipendenti della società Contratti Internazionali Costruzioni (Con.I.Cos.), con sede a Mondovì (CN), che erano impegnati nei lavori per l’ammodernamento dell’aeroporto della città.
Pur volendo restringere l’attenzione al solo teatro libico, l’episodio non può e non deve esser considerato di natura eccezionale e/o uno sfortunato incidente, seguendo solo di pochi mesi il rapimento di Filippo Calcagno, Salvatore Failla, Fausto Piano e Gino Tullicardo, quattro lavoratori alle dipendenze dell’impresa italiana Bonatti SpA, sequestrati durante una trasferta di lavoro in Libia. Negli ultimi 5 anni sono stati sequestrati nel paese nordafricano ben 15 lavoratori italiani, operanti per aziende nazionali.
L’obiettivo che dovrebbe animare tutti coloro che hanno a cuore la sicurezza dei lavoratori è di caratura elevata: non l’intenzione di riproporre superati ed anacronistici schemi di contrapposizione sociale tra organizzazioni sindacali, impegnate nella difesa delle classi lavoratrici, ed organizzazioni datoriali asseritamente arroccate nella strenua tutela di interessi meramente economici perpetrati a scapito della c.d. forza lavoro, né tantomeno vi dovrebbe essere il desiderio di puntare un dito accusatore contro Istituzioni assenti, incapaci di assicurare la protezione degli interessi italiani all’estero.
Al contrario: bisogna sottolineare il ruolo insostituibile della nostra diplomazia, le elevate capacità operative della nostra intelligence e l’impegno di tutte le Istituzioni pubbliche votate a sostenere e (quando necessario) difendere l’iniziativa economica privata che si spinge oltre i confini nazionali.
E’ altamente meritorio l’operato degli imprenditori italiani che, animati dalla volontà di superare le ristrettezze di un mercato nazionale troppo spesso saturo, si spingono oltre frontiera garantendo benessere economico e giusto compenso a tutte le controparti coinvolte; apprezzamento e stima deve essere rivolto a quei lavoratori che, a fronte di un equo compenso affrontano sacrifici personali e familiari, supportando con la propria operosità l’Azienda, contribuendo direttamente al successo e prosperità della stessa.
E’ per questo motivo che appare necessario adoperarsi affinché gli episodi criminali sopra richiamati diventino spunti operativi e concreti per indurre tutte le Parti Sociali ad affrontare immediatamente, in spirito di condivisione, un tema di attualità ed urgenza tale da non poter essere più oltre sottaciuto: il dovere di protezione dei nostri lavoratori.
A tal fine, è ormai imperativo diffondere la conoscenza e l’effettiva applicazione di tutti quei presidi già previsti dal Legislatore italiano ma spesso – per i motivi più diversi – ignorati.
Un quadro normativo composito ma utile, qualora correttamente applicato, a garantire non già l’eliminazione (nemo impossibilia tenetur) ma la riduzione entro limiti accettabili del rischio di coinvolgimento in episodi dannosi per i nostri lavoratori e che, nell’ordine, risulta fondato in primis sull’art. 32 della Costituzione che sancisce il diritto alla Salute qualificato come fondamentale e, non di meno, sulle previsioni dell’art. 2087 del Codice Civile, norma di chiusura del sistema antinfortunistico, estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione che impone l’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisiopsichica dei dipendenti.
Queste solide fondamenta normative sono state più recentemente puntellate (ove mai se ne fosse avvertito il bisogno) dalle recenti disposizioni del D. Lgs. 81/2008 (i.e. Testo Unico sulla salute e sicurezza) e dalle previsioni del D.Lgs. 231/ 2001.
Ma le aziende possono da sole sopportare tutto il carico per la sicurezza e continuare ad essere competitive sul mercato? A questo punto il che fare appare d’obbligo. Il Governo, che ha sottoscritto la Convenzione di New York contro la cattura di ostaggi e il Memorandum di Algeri che stabilisce le linee direttrici per prevenire i rapimenti e far fronte ad essi senza il pagamento del riscatto non può continuare ad ignorare il costo dei sequestri in tema di perdita di vite umane.
In questi anni infatti ben 6 lavoratori italiani sono rimasti vittime della rabbia jhadista e di bande criminali che prosperano ai quattro angoli del mondo.
Allora è ora di fare. Il Governo deve imporre alle aziende che vanno all’estero di dotarsi di sistemi di sicurezza. Tenuto conto del danno che la morte di un lavoratore può arrecare al nostro sistema sociale non dovrebbero esserci difficoltà, con una norma ad hoc, a defiscalizzare i costi della sicurezza.
I sindacati dovrebbero in qualche modo riscattare il loro silenzio esercitando la loro influenza affinchè il governo adotti strumenti idonei ad evitare che si continuino a compiere sequestri a danno dei lavoratori. I magistrati continuino ad applicare la legge.