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AssetProtection. Call center, come addomesticare il telemarketing selvaggio?

Se nell’immaginario collettivo l’operato dei centri di contatto con i clienti – più comunemente, e con buona dose di disprezzo, detti call center – era già nel mirino, ultimamente le attività di telemarketing sono finite sotto processo per direttissima, con il rischio che la sentenza definitiva sia una condanna a morte. Infatti è al vaglio della Camera una proposta di legge, già approvata in Senato, che riguarda due aspetti principali: l’ampliamento del registro delle opposizioni a numerazioni non presenti negli elenchi telefonici e numeri cellulari, nonché l’introduzione di un prefisso unico per tutti gli operatori di telemarketing, in modo tale da essere riconoscibili a coloro che ne ricevono le chiamate.

I giornali ci sono andati a nozze, menando giù duro contro i contact center, con titoli dalla voce grossa sul telemarketing selvaggio. Ed in questa bufera, sia normativa che mediatica, ci finiscono in mezzo anche quei centri di contatto che riescono a lavorare in modo “pulito”, anche se un po’ con le spalle al muro: da una parte gli obiettivi commerciali richiesti e dall’altra la miriade di adempimenti normativi a cui rispondere, per altro con investimenti tecnologici non proprio irrilevanti.

Del resto per ogni “situazione da telemarketing” che manda in bestia le persone, c’è una spiegazione ben chiara. Vediamone alcune delle più diffuse.

Il telefono squilla; “pronto?”. Qualche secondo di silenzio, poi “tu, tu, tu”: cade la linea. La maggior parte dei contact center utilizza un sistema che si chiama power dialer. Il server di fonia lancia un tot numero di chiamate per volta, scarta i numeri occupati, le segreterie telefoniche, i fax e mantiene in piedi solo le chiamate dove squilla libero. Poi le distribuisce agli operatori telefonici che non sono già impegnati in conversazione. Questo sistema garantisce una maggior produttività, ma se non è ben tarato, una chiamata buona ogni tanto resta senza operatore; così il sistema riaggancia anche se qualcuno dall’altra parte ha risposto.

A tal proposito il Garante per la privacy si è espresso in modo molto chiaro: le chiamate mute non devono superare il 3% del totale delle chiamate effettuate, chi è vittima di una chiamata muta non può essere ricontattato prima di 7 giorni ed in ogni caso, pur non rispondendo un operatore, il sistema dovrebbe almeno riprodurre dei rumori d’ufficio (per creare distinzione dalle chiamate intimidatorie). Senza entrare in dettagli noiosi, va però detto che riuscire a gestire il controllo di queste istruzioni non è cosa da poco.

Ho già detto di no, è la sesta volta che mi chiamate!” È una frase vagamente familiare, non è vero? Pur avendo più volte espresso palesemente il proprio disinteresse per un’offerta, può capitare di essere ricontattati, anche più e più volte. Può succedere per differenti ragioni. La prima: potrebbero essere ingaggiati più outsourcer per la stessa campagna, magari affidando loro una parte di anagrafiche uguali da contattare. La seconda: semplice anomalia o rallentamento di sistema. L’operatore inserisce l’esito “non interessato” per una determinata anagrafica, ma il sistema di fonia non vede quell’esito e seguita a chiamarlo, passando la  successiva chiamata ad un operatore differente che cade dalle nuvole. La terza, la più comune: per un operatore telefonico un “no” non è un voto bruttissimo ma neanche bello. Così qualcuno di loro fa il furbetto e quando riaggancia, invece di esitare l’anagrafica come “non interessato”, la ributta in circolo come “non risponde”; così il “no” se lo becca qualcun altro.

Quando una conversazione finisce con uno strillo “ho detto di no” è perché l’operatore è troppo insistente, non accetta il rifiuto e rilancia l’offerta. In gergo tecnico si chiama overselling. È lecito per chi fa questo mestiere cercare di superare almeno una volta l’obiezione mossa dall’interlocutore, ma tentare di rilanciare ancora è veramente poco professionale. Se l’attività formativa svolta sul team – a proposito delle tecniche di vendita – è di buon livello, il messaggio trasmesso è convogliato ad incoraggiare l’empatia e a scoraggiare l’insistenza.

Infine esiste il caso peggiore: riguarda chi ascolta cosa ha da dirgli l’operatore, tutto sommato è interessato al prodotto, e compra. Poi però, quando vede il prodotto o servizio che sia, si accorge che non gliel’hanno raccontata proprio tutta. E così applica il diritto di recesso. Nelle attività serie di telemarketing, anche a seconda del prodotto venduto, dovrebbe essere prevista una fase di quality con riascolto integrale delle vendite e relativa validazione. Se non sono state esposte correttamente tutte le caratteristiche, il cliente deve essere ricontattato, nuovamente informato e l’operatore deve provvedere a riacquisire il consenso. Anche il tasso di disdette sulle vendite effettuate è un voto importante per l’operatore; ma se manca il quality, tutto diventa un po’ più fumoso.

Come abbiamo visto, i modi per addomesticare il telemarketing non mancano. Ma richiedono tempo, persone, tecnologie; in sostanza, soldi. Ed i margini economici sulle attività vanno giù. La qualità si paga, si sa. E forse lo scotto di questa brutta situazione – come avvertono associazioni di categoria e sindacati potrebbe portare alla perdita di 40mila posti di lavoro, qualora il disegno di legge venisse approvato dalla camera – potrebbe pagarlo chi non c’entra. Perché, più che i call center, sono commerciali ed uffici acquisti delle committenti che spingono per comprare o erogare servizi a basso costo, anche se poco presidiati; senza però riflettere sul fatto che potrebbero rovinare per sempre un canale che in passato s’è dimostrato vincente e che, con un po’ d’accortezza, può essere gestito in modo corretto.

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