Come sostiene Stefano Quintarelli, con una sintesi efficace, “Quando acquistiamo uno smartphone, pensiamo che diventi nostro, ma in realtà non lo è”. E questa immagine forse l’ha avuta di fronte a sè anche Tim Cook, il CEO di Apple, durante le lunghe ore di audizione nel dibattito che vede l’azienda che guida accusata di abuso di posizione dominante da parte di Epic Games, il produttore di Fortnite, per il ruolo che interpreta di “gatekeeper” dei download delle app sui telefoni da essa prodotti.
Con una difesa basata sui servizi tecnici dati ai produttori delle app per gli acquisti in-app e sulla protezione offerta agli utenti in merito ai loro dati ed all’incolumità dei loro dispositivi, Apple si trova infatti a dover giustificare il 30% di commissione richiesta agli sviluppatori per un valore che l’anno scorso è ammontato a 70 miliardi di dollari e il dibattimento che, in Europa, la vede contrapposta a Spotify rimarca quanto Apple sia chiamata a rispondere dei compensi che richiede e dei limiti che impone.
Questi temi sono diventati così rilevanti, di qua e di là dall’Atlantico, che lo scorso autunno la Commissione Europea ha varato due provvedimenti – il Digital Services Act e il Digital Markets Act – che intervengono proprio per impedire le “anti-steering provisions” (l’impossibilità di comunicare abbonamenti più convenienti disponibili al di fuori della piattaforma) ed anzi sono volti a permettere a produttori e consumatori di comunicare in modo trasparente.
La sanzione comminata a Google per il blocco di Juicepass di cui abbiamo parlato la scorsa settimana, i processi in cui è coinvolta Apple fino al confronto che ha visto quest’ultima accusarsi reciprocamente con Facebook per la richiesta, rivolta agli utenti, di accettare il tracciamento prodotto dalle app mostrano un anno di forte dialettica del mondo digitale da cui probabilmente uscirà una Rete diversa da quella a cui abbiamo assistito in questi ultimi anni.