Una delle competenze chiave che differenzia un cittadino da un suddito è l’alfabetizzazione, e non c’entra la cultura con la “C” maiuscola ma si tratta di un fatto pratico ed elementare; se non sono in grado di comprendere le leggi che mi governano, e non posso contribuire alla loro formazione, allora non potrò mai essere libero di scegliere. Sarò un suddito, appunto.
Non a caso, per migliaia di anni, le autorità al potere conservavano gelosamente il privilegio dell’elaborazione dei testi scritti con cui codificavano le norme.
La divulgazione era affidata all’arte (un po’ come oggi si utilizza l’infotainment e lo storytelling) che serviva a comunicare sommariamente i concetti chiave che i sudditi dovevano assorbire. Solo in un secondo momento si passò alle grida spagnole.
L’analfabetismo è stato debellato solo recentemente e con la sua scomparsa si è riusciti ad elevare le masse a rango di cittadini.
Una conquista raggiunta, di fatto, nella seconda metà del ‘900 e nemmeno in tutto il mondo. Un battito d’ali fa, ma peccato sia durata così poco.
Non è un segreto per nessuno che le istituzioni tradizionali, negli ultimi anni, facciano fatica a creare consenso e aggregazione: i partiti politici e i mezzi di comunicazione di massa, sono solo due esempi.
Come tutti sappiamo e sperimentiamo quotidianamente, infatti, è accaduto nel breve volgere di un decennio che i codici chiave che (sempre più) regolano le relazioni sociali non sono più fatti di parole, ma di algoritmi.
C’è da scommetterci, questo è solo l’inizio: tra big data e machine learning si prospetta un incremento esponenziale dell’influenza dei codici digitali sulla vita e le norme sociali.
A guardar bene non è proprio un caso che l’ineguaglianza economica cresca sostanzialmente visto che il potere di comprendere e decidere si concentra in sempre meno mani, cioè in quelle di chi stabilisce come gli algoritmi debbano operare. Altro che politiche sociali di redistribuzione; siamo di fronte ad un problema strutturale difficilmente arginabile con palliativi da politico a caccia della rielezione.
Intendiamoci, non si tratta di farsi prendere da panico morale anti-tecnologico, ne’ da visioni apocalittiche. Al contrario la tecnologia è uno strumento formidabile se assoggettata a necessità e bisogni e se mira a rendere migliore la vita delle persone. Difficile però che questo possa accadere in un regime di monopolio o oligarchia come quello affermatosi nell’economia digitale. Affinché la tecnologia possa essere davvero uno strumento di progresso e non di dominio è necessaria la sua democratizzazione, premessa indispensabile per un vero libero mercato.
Del resto la rete internet nasce come progetto collaborativo, e gli esempi di software open-source, come i sistema operativo Linux, ne sono la sua continuazione. E’ singolare, ma i server su cui girano le nostre informazioni personali (che i colossi del digitale usano a fine privato) non sono gestiti su sistemi Windows o Apple, ma proprio Linux.
Le nuove “leggi” che regolano come l’informazione ci viene somministrata, come il nostro danaro e il nostro tempo vengono investiti e quali messaggi politici ci vengono propinati, non sono comprensibili dalla stragrande maggioranza della popolazione e, in ogni caso, nemmeno consultabili. Non potrebbe essere altrimenti visto che la narrativa dominante le vuole far passare per segreti commerciali e rifiuta di ammettere che si tratta, in realtà, della codificazione di scelte politiche e interessi.
Del resto è la solita storia vecchia di millenni: si cerca di impedire la libera concorrenza chiamando la propria posizione di dominio “giusta”.
Un po’ come dire “mi dispiace signori, ma la legge è segreta e, anche se da autodidatti ne doveste imparare l’alfabeto, non ve la facciamo comunque consultare”.
Se questo non è analfabetismo di massa, non saprei proprio come chiamarlo.