La vicenda degli ultimi giorni relativa alle dimissioni di Alessandra Poggiani da direttore generale dell’Agenzia per l’Italia digitale (AGID) pone ancora (per chi non si è stancato sin qui) qualche considerazione sullo stato del digitale in Italia.
E’ il caso, tuttavia, di andare oltre le solite banalità sul posizionamento in fondo a tutte le classifiche europee (non se ne può più delle letture quantitative, tagliate a peso).
Ma innanzitutto occorre stare ai fatti.
Negli ultimi governi prima di Matteo Renzi (Berlusconi, Monti, Letta), l’economia digitale è stata espressione schizofrenica di una visione bifronte: il digitale come un obiettivo enfatizzato, una terra promessa, una linea distinta dalla quotidianità delle scelte della politica (“altro che internet e social, qui dobbiamo pensare al cemento e ai forestali da reinserire…”).
In sostanza, secondo questa visione, il digitale è una sorta di area franca dell’innovazione intesa come palestra dove farsi i muscoli, ma sapendo bene che i giochi si fanno altrove e che i giochi e i suoi attori rispondono a regole diverse.
Questo è il punto.
I decisori politici italiani (e i poteri che sostengono molti di essi) hanno avvertito nel corso degli anni che il digitale avrebbe potuto scardinare le dinamiche tradizionali del potere, i potentati economici antichi, i sistemi di accumulazione illecita della ricchezza e, perché no, i vecchi sistemi di finanziamento della politica.
Va da sé che l’espressione usata è un eufemismo per indicare, in molti casi, i fenomeni di corruzione diffusa che impegnano parte significativa del sistema politico, specialmente locale, dove molti eletti di Regioni, Province e Comuni sono espressione diretta di organizzazioni criminose che controllano quasi totalmente i territori (al sud come al nord).
Il digitale è e potrà invece essere un’arma micidiale proprio contro corruzione e inefficienza, grazie a tracciabilità, accesso immediato alle informazioni, trasparenza.
Tutte cose invise ai vecchi e nuovi sistemi di potere afflitto dalle manifestazioni patologiche ben note alla cronaca.
Poi è arrivato il governo Renzi, che ha dichiarato di voler fare del digitale l’arma letale per sconfiggere i vecchi sistemi di potere lenti, corrotti, inefficienti e costosi.
Le dichiarazioni di intenti sono state entusiasmanti.
L’inizio del percorso è stato segnato dal semestre europeo (giugno-dicembre 2014), indicato come un banco di prova del digitale.
L’avvio, con il Digital Venice (organizzato proprio da Alessandra Poggiani, come responsabile della società locale cui è stato affidato il coordinamento dell’evento) è stato quanto mai deludente: organizzato in tutta fretta, senza un disegno compiuto a monte, senza un obiettivo dichiarato.
Il seguito, come buona parte delle iniziative sul digitale previste per l’intero semestre, non ha portato molto altro.
A fine Digital Venice è inoltre sopraggiunta la tanto attesa nomina del direttore dell’AGID, che ha impalmato Alessandra Poggiani, in sostituzione di Agostino Ragosa.
La nomina della Poggiani è apparsa subito a molti come fuori tiro, in considerazione dell’esperienza debole rispetto all’incarico assegnatole.
Il resto è stato conseguente.
Otto mesi di assoluta stasi, in cui le uniche cose fatte sono state quelle decise prima che arrivasse la Poggiani, ovvero ai tempi di Agostino Ragosa.
Ma nel frattempo sono affiorate altre incongruenze, questa volta a livello di cruscotto governativo.
Una governance dell’intero sistema decisionale del digitale con frammentazioni di poteri e competenze, senza un disegno complessivo unico: AGID accompagnata da un Comitato di indirizzo presieduto dall’onnipresente Stefano Quintarelli, con compiti ridondanti e forse inutili; un Digital Champion come Riccardo Luna, che interpreta a suo modo il ruolo dell’incarico governativo e si barcamena tra sistema di sponsorizzazione delle attività dei Digital Champions locali (rappresentati quasi sempre da professionisti che svolgono attività lavorativa proprio nei territori di competenza) e il lavoro di giornalista di Repubblica; un consigliere di Palazzo Chigi, per l’Innovazione, Paolo Barberis, che è anche imprenditore nel medesimo settore per il quale è stato chiamato a svolgere il ruolo di nomina governativa.
Tutte cose che non aiutano a fare chiarezza.
Una ressa che ha rischiato, secondo alcuni, di diventare rissa e che intanto registra il passo indietro della Poggiani, la cui determinazione deriva probabilmente anche dall’irreversibile deterioramento dei rapporti con Palazzo Chigi (l’invito alla candidatura è usualmente un sistema tipico con cui la politica ti dice che devi cambiare posto).
Resta l’obiettivo del digitale italiano e l’auspicato ruolo del governo nel far saltare le carte del passato e nel superare le incongruenze del presente.
Le attese sono molto alte, inutile dirlo e hanno il sapore dell’ultima chiamata.
Ciò che il governo può fare è dare un segno di inversione di tendenza, un cambio di passo che parta da alcuni assunti precisi.
Innanzitutto profilare subito delle strategie nazionali (che non abbiamo e non abbiamo mai avuto) su alcuni ambiti verticali, prima che i buoi scappino e prima di finire nelle mani delle 3-4 multinazionali americane che contano: su tutte le aree del Cloud e dei Data Center.
Ogni paese europeo ha una politica nazionale sul Cloud, l’Italia no.
E’ una scelta o un’espressione di noncuranza o addirittura di sciatteria?
In Germania le gare pubbliche possono essere gestite solo su siti ospitati su Cloud nazionali tedeschi e su client di posta elettronica nazionali.
Il risultato è che da tre anni, col nuovo sistema, sono aumentati quasi del 40% le assegnazioni a società tedesche su gare pubbliche, prima quasi tutte in mano a società multinazionali.
Una coincidenza?
Forse, ma intanto le nostre procedure immesse in rete sono in mano a chiunque e sappiamo quanto sia in voga l’attività di furto dei contenuti documentali (alcune nazioni campano sul furto di proprietà intellettuali e brevetti carpiti proprio mentre i dati navigano in rete).
Accade qualcosa del genere anche in Italia sui contenuti delle documentazioni di partecipazione alle gare pubbliche?
Non saprei, ma teniamo in contro il caso tedesco.
Una seconda considerazione riguarda la semplificazione delle procedure.
Dire all’estero che abbiamo un Ministero della Semplificazione fa sorridere tanti.
Ma come, prima vi complicate la vita e poi volete semplificarla?
Ovviamente il compito di un Ministero della Semplificazione è quello di semplificare le procedure.
Ora, nel caso del digitale è difficile digitalizzare, senza prima semplificarlo, il complesso arzigogolato delle procedure italiane della Pubblica Amministrazione, studiate spesso ad arte in quella foggia per consentire sempre di trovare l’inghippo, di individuare gli elementi per un ricorso al TAR con cui condizionare l’assegnatario di un concorso pubblico, per fare melina e usare la deterrenza innanzitutto per “non far fare” le cose ad altri.
La realtà delle cose è figlia di un principio ineluttabile del tipo “…intanto ti complico le cose” indicando con una mano la lista dei vincoli e delle norme, mentre l’altra mano indica subito “chi ti può facilitare la strada”: insomma l’anticamera della corruzione e dell’inefficienza della Pubblica Amministrazione, un aspetto su cui pascolano non pochi amministratori locali di Regioni, Province e Comuni.
Allora semplifichiamo velocemente le procedure e solo dopo immediatamente digitalizziamole.
Un terzo aspetto riguarda coloro che non mi stancherò mai di indicare come “i potenti nemici del digitale”, ovvero coloro che non intendono rinunciare a tutte le cose che il digitale e la sua economia bruceranno o renderanno inutile.
Il digitale è certamente disruptive, ma costoro devono immaginare nuovi ruoli che si rendono disponibili dalla fine di alcune procedure e dalla insorgenza di nuove relazioni.
Anche qui la Pubblica Amministrazione può fare.
Un esempio su tutti.
Oggi chi vuole documenti a sportello deve andare presso gli uffici.
Se si digitalizzassero tutte le procedure di sportello, chi vorrà potrà fare tutto online, chi non potrà (per ignoranza digitale da terza o quarta età) o per mancanza di banda larga a casa, potrà continuare ad andare negli uffici dove potrà fare le stesse cose con l’assistenza dei dipendenti e delle postazioni pubbliche di connessione in rete.
Un po’ come avviene negli aeroporti, dove puoi fare il check-in al desk o, se vuoi, puoi farlo alle macchinette, contando sull’aiuto del personale della compagnia che ti instrada e un po’ per volta inevitabilmente ti insegna a fare da te.
Invece al momento l’attenzione si è nuovamente rispostata sulle modalità di selezione del nuovo direttore di AGID.
Inevitabile soddisfare quel requisito, ma subito dopo occorre imboccare la strada giusta: semplice, dritta, veloce, nell’interesse del Paese, del sistema di imprese, dei cittadini e consumatori.
Questo ci aspettiamo dal governo Renzi.