È difficile in questi giorni pensare al futuro. In questo momento ci viene molto più naturale guardare al passato, alla vita che ci siamo lasciati alle spalle solo pochi giorni fa, e che già sembra così lontana, quasi irraggiungibile.
Più che domandarci se mai tornerà, tuttavia, è utile in queste circostanze un esercizio diverso: un confronto tra la prospettiva che abbiamo avuto fino allo scorso 20 febbraio e quella che stiamo maturando in questi giorni di fronte al cambiamento violento cui stiamo assistendo.
Le infrastrutture di telecomunicazioni e la grande Rete. Abbiamo capito quanto vitale sia il contributo delle telecomunicazioni e della grande Rete per la nostra esistenza. Sono le infrastrutture di comunicazione che oggi consentono all’informazione di arrivare, alle aziende di continuare a operare, alle persone di rimanere in contatto, malgrado il distanziamento sociale necessario e doveroso.
Troppo spesso, in passato, le stesse infrastrutture sono state considerate come una priorità inferiore, una sorta di complemento, per il tessuto sociale e produttivo. Nulla di più falso: lo abbiamo visto con i nostri occhi in questi giorni, in cui ci siamo trovati a dover fare i conti con il digital divide tra chi è raggiunto dalla banda larga e chi si deve accontentare di connessioni instabili e poco capaci; il che, tradotto nel linguaggio dell’emergenza, significa non poter lavorare a distanza, non poter assistere alle videolezioni scolastiche, non poter ordinare la spesa a domicilio né conoscere l’aggiornamento delle notizie.
Se si fosse lavorato a colmare questo divario in tempi non sospetti, oggi sarebbe stato più facile per tutti proseguire nelle attività necessarie per la nostra vita. Più che recriminare sul passato, tuttavia, vale la pena di impegnarsi, molto più che con un auspicio, a fare in modo che d’ora in avanti la disponibilità di infrastrutture di comunicazione non rappresenti un potenziale fattore di disuguaglianza sociale, ma un elemento della nostra stessa cittadinanza attiva.
Le disparità tra le persone non sono affatto scomparse con il virus, come qualcuno ha sostenuto rappresentando la pandemia come una sorta di “livella” degna di Totò. Semmai è vero il contrario: in questa situazione, chi abita in case spaziose, chi ha un lavoro stabile, chi può usufruire di servizi all’avanguardia è fatalmente più avvantaggiato di chi è stato sorpreso dalle disposizioni governative in monolocali angusti e poco salubri, di chi si guadagna da vivere in maniera precaria e non sempre regolare, di chi non può accedere a piattaforme digitali pubbliche e private che semplifichino le condizioni della vita quotidiana.
Memori di quanto accaduto nel secondo dopoguerra, dovremmo allora sin d’ora progettare misure per il futuro in grado di contrastare questa disparità, cominciando senz’altro a mio parere dalla diffusione capillare delle infrastrutture di comunicazione, viste come presupposto del nostro vivere civile.
Le piattaforme digitali. Ho menzionato le piattaforme digitali: è difficile esagerarne l’importanza, in questi giorni, per esempio pensando a quanti dipendenti hanno potuto continuare a lavorare grazie agli strumenti di collaborazione a distanza.
Strumenti che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono stati concepiti e realizzati da grandi società multinazionali, che li mettono spesso a disposizione gratuitamente, salvo poi utilizzare i dati raccolti per loro tramite a scopi commerciali. Si è parlato proprio in questi giorni della possibilità di utilizzare questi stessi dati a scopo di prevenzione del contagio, seguendo quelle che in altra sede avevo chiamato le “tracce” del nostro vivere. Anche in questo caso la riflessione sul presente va però completata con un proposito per il futuro: che veda i tanti talenti presenti nel nostro Paese come parte attiva nella progettazione e nello sviluppo di soluzioni simili.
Qualche giorno fa, il Ministero per l’Innovazione ha lanciato una call per raccogliere proposte a livello nazionale, in modo da utilizzare i big data come strumento di individuazione dei potenziali contagiati e quindi di contenimento dell’epidemia. A questa chiamata ha risposto anche l’azienda che ho fondato e che dirigo: ma quale che sia l’esito del confronto, credo che si sia trattato di un’esperienza positiva che deve indicarci la strada per il futuro.
La nostra capacità imprenditoriale e progettuale non può e non deve restare un’eccezione confinata alle emergenze: non ce lo possiamo permettere. Questo vale anche e soprattutto per le piattaforme digitali, innervate dai milioni di dati raccolti e elaborati, che rappresentano sempre più l’ossatura della nostra interazione economica, produttiva e sociale: abbiamo la necessità e il dovere di considerare l’impegno su questo fronte alla stregua di quello in tutti gli altri settori della produzione industriale, che tanto prestigio ci hanno fruttato a livello internazionale.
La trasformazione del lavoro. A proposito di produzione industriale, l’esperienza del CoViD-19 ci evidenzia che i lavori non sono affatto tutti uguali. E questo non perché, come avevamo pensato fino a pochi giorni fa, qualcuno di essi possa essere sostituito dai robot mentre altri resisteranno all’assalto, ma perché vediamo davanti ai nostri occhi professionalità impegnate in settori cruciali, che sono e saranno indispensabili, a fronte di impieghi che solo una retorica ben congegnata può averci condotto fino a ieri a considerare necessari.
Non è una questione di soft skill o di hard skill, per riprendere una contrapposizione cara ad alcuni, ma di valore effettivo o presunto: il valore dei medici che in questi momenti stanno contribuendo senza sosta a salvare vite umane, spesso dando la propria, o quello dei lavoratori della logistica che continuano a garantirci l’approvvigionamento dei beni essenziali, o quello dei ricercatori e dei data scientists che hanno ingaggiato una vera e propria gara di intelligenza con il virus per inseguirlo, inquadrarlo e se possibile prevenire le prossime mosse.
Anche in questo caso, un insegnamento utile per chi aveva semplicisticamente pensato che la tecnologia avrebbe “liberato” – o privato, a seconda delle prospettive – l’uomo dal proprio lavoro. Al contrario, come stiamo vedendo, la tecnologia supporta, accelera, funziona da abilitatore di idee, abilità e energie del tutto umane.
Ne sono un ottimo esempio i makers che armati d’ingegno e di stampanti 3D hanno trasformato le maschere subaquee di una catena di accessori sportivi in dispositivi da collegare ai ventilatori polmonari; o quelli che hanno iniziato a stampare sempre in 3D le introvabili mascherine protettive.
Più in generale, ogni caso di riconversione industriale annunciato in questi giorni, con intere catene produttive (magari fino a ieri sull’orlo della crisi aziendale) reindirizzate alla produzione sanitaria e medicale, ci ricordano che tecnologia significa flessibilità e apertura al cambiamento.
Un utile promemoria per il dopo-crisi, quando sarà più che mai necessario incoraggiare la digital transformation nel mondo del lavoro, e l’adozione delle innovazioni connesse all’industria 4.0, finalmente liberi, o almeno si spera, dai timori dei catastrofisti che ne avevano finora imbrigliato la crescita.
Una visione di sistema. La trasformazione che ci attende non riguarda di certo solo il lavoro; e per usare un eufemismo, non è affatto certo che il suo esito sia positivo. Ma la lezione forse più importante di questi giorni riguarda proprio questa incertezza. Le parole di Papa Francesco, bianca e solitaria figura nella tempesta davanti al sagrato di San Pietro, ci hanno ricordato che nessuno si salva da solo. Lo abbiamo già provato quando abbiamo pensato di poter agire isolatamente, senza tenere presente la complessità del tessuto sociale ed economico e della dimensione globale della nostra epoca.
Il nostro Presidente della Repubblica, richiamandoci alla coesione, ha espresso lo stesso concetto invitando ciascuno a fare la sua parte; un messaggio che deve fungere da bussola in grado di orientarci anche per il futuro che ci aspetta.
Non possiamo e non dobbiamo immaginare che la nostra visione limitata, di pedine isolate, sia quella destinata ad affermarsi nella lunga durata; al contrario, il futuro richiede una visione di sistema, in cui i ruoli di ciascuno si compenetrano a formare un quadro armonico complessivo.
Insisto sulla necessità di una prospettiva lungimirante, perché credo che le costrizioni e le difficoltà dell’oggi ci abbiano insegnato molto sul domani, e sono convinto che sia necessario fare tesoro di questi insegnamenti.
Sta a noi fare in modo che la pandemia ci tramandi un’eredità positiva per il futuro: e a me interessa molto il futuro, è lì che passerò il resto della mia vita.