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Uber, la app che sta facendo scendere in piazza i tassisti di mezzo mondo (domani la protesta delle auto bianche contro la app a Milano, Londra, Parigi, Berlino e Barcellona), vale davvero la valutazione da 18,2 miliardi raggiunta nell’ultimo giro di finanziamenti?
La società ha raccolto nelle scorse settimane fondi per 8 miliardi di dollari: solo nell’ultima tornata ha raccolto 1,2 miliardi da investitori quali Fidelity Investments, Wellington Management, BlackRock. Tra gli altri sostenitori, fondi del calibro di Summit Partners, Kleiner Perkins Caufield & Byers, Google Ventures e Menlo Ventures. Finanziamenti che hanno consentito a Uber di quadruplicare la sua valutazione in meno di un anno e di portarla a un livello tra i più alti mai raggiunti da una startup.
Ma come vanno gli utili e i ricavi? Secondo un rapporto interno circolato alla fine dello scorso anno, Uber – partita due anni fa a San Francisco e oggi presente in circa 35 citta, tra cui Milano – ha registrato un fatturato di circa 1,1 miliardi di dollari, con utili netti per circa 200 milioni di dollari, contro i 125 milioni stimati all’inizio del 2013.
Lo stesso Ceo Travis Kalanick in un’intervista al WSJ ha confermato che il business sta galoppando, con ricavi che raddoppiano ogni sei mesi: sulla base dei dati di cui sopra, quindi, Uber potrebbe chiudere il 2014 con ricavi prossimi al miliardo di dollari.
La valutazione appena raggiunta si attesterebbe pertanto a 17 volte i ricavi previsti per quest’anno.
Il punto è: Uber può sostenere questo ritmo di crescita? Il Financial Times paragona Uber a Groupon, che correva altrettanto veloce prima di crollare.
Il sito dei ‘gruppi di acquisto’, spiega il quotidiano della City, è passato da 313 milioni di ricavi netti nel 2010 a 1,6 miliardi l’anno successivo. Un boom dovuto a una formula vincente: permettere ai commercianti di raggiungere nuovi consumatori e a questi ultimi di usufruire di sconti anche importanti sui servizi. Ma nell’ultimo anno il titolo ha perso la metà del suo valore e ancora nell’ultimo trimestre dello scorso anno, ha chiuso con un rosso da 81,2 milioni di dollari, pur a fronte di un aumento del 20% dei ricavi, a 768,4 milioni.
La stessa idea vincente, pur in un segmento molto diverso, l’ha avuta Uber che ha ideato un servizio in grado di soddisfare sia gli utenti – con un servizio a volte più economico del taxi – che gli autisti privati, che, secondo i dati Uber, guadagnano più di quanto guadagnerebbero guidando un taxi (e qui andrebbe fatto tutto un discorso a parte sul fatto che però gli autisti pagano, e cara, la licenza e devono attenersi a precise misure di legge).
Pur con business molto diversi, nota quindi il FT, le due società hanno in comune il fatto di riferirsi a se stessi in termini grandiosi: se Groupon di descrive come ‘il sistema operativo del commercio locale’, Uber, non pago di voler semplicemente sostituire i taxi, sostiene di voler creare un servizio in grado di mandare in pensione il concetto di proprietà privata dell’automobile.
Come se ciò non bastasse, pare che Uber stia mettendo gli occhi su un altro mercato: quello della logistica. Quando, insomma, gli autisti Uber non hanno passeggeri da trasportare, possono sempre caricare qualche pacco e portarlo a destinazione, dal negozio a casa dei consumatori. Una mira non da poco.
Ma, se il caso di Groupon ha insegnato qualcosa, è il pericolo insito nel distrarsi dal proprio core business pensando troppo agli obiettivi futuri e poco alle esigenze presenti dei consumatori.
Cosa succederebbe, infatti, se i costi del servizio aumentassero per far fronte a nuove spese (finanziare nuove flotte di veicoli, formare gli autisti, soddisfare maggiori obblighi di legge)? I consumatori, potrebbero girare le spalle a Uber, o potrebbe arrivare qualche servizio simile a fargli la concorrenza.
“Queste sono buone ragioni perché Uber farebbe meglio a concentrarsi sul breve termine invece che puntare su mercati fittizi che potrebbero dare frutti, ma anche no. Come dimostra Groupon, la crescita a rotta di collo potrebbe fermarsi bruscamente nel momento in cui ci si rende conto che un affare troppo bello per essere vero si rivela essere, appunto, troppo bello per essere vero”, conclude il FT.