Videogames: altro che passatempo per sfigati, oggi si gioca ‘per essere qualcuno’

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Un nuovo studio dell’osservatorio STEVE ci fornisce una visione di prima mano sul rapporto tra giovanissimi e videogames.

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Se il rapporto tra i giovanissimi e i videogiochi fosse riassumibile col ritornello di una canzone, sicuramente sarebbe ‘apro gli occhi e ti penso‘ (da ‘Io ho in mente te’): già perché spesso i ragazzi si addormentano e si svegliano con il preciso desiderio di accendere la consolle. Ce lo dice un nuovo report di STEVE, un osservatorio permanente nato con l’obiettivo di raccontare l’evoluzione del rapporto tra l’uomo e la tecnologia. Lo studio non è stato redatto da accademici o studiosi, ma nasce dalle risposte di una rete internazionale di giovanissimi ‘Cool Hunters’ (dai 17 ai 22 anni) che ci danno quindi una visione ‘di prima mano’ del fenomeno.

 

I nativi digitali, dicono, hanno un rapporto tanto stretto coi videogames che “hanno i calli sulle mani” non soltanto perchè oggi si gioca tanto, ma anche e soprattutto perché le console coi loro pad fatti di leve e pulsanti hanno avuto la meglio sulle tastiere e i mouse dei PC.

Nei mondi virtuali, ci dice lo studio, i giocatori di oggi “si sentono qualcuno, possono diventare quello che vogliono, salvare il mondo oppure distruggerlo, possono essere importanti”, anche se nella vita vera, in qualche caso, sono considerati looser, perdenti.

 

Ma com’è cambiato il mondo dei videogames dai tempi di Pac-Man, Super Mario e Space Invaders (i giochi preferiti dai papà dei nativi digitali)?

Grafica a parte, ovviamente, l’esperienza di gioco è oggi più profonda e complessa e non solo per via dell’evoluzione tecnologica: trama, azione, personaggi, scenari sono componenti che permettono ai giocatori di essere gli eroi principali del gioco, di scriverne il finale con le loro azioni.

Pensiamo a Call of Duty e Battlefield, che permettono di vivere i combattimenti di una guerra moderna; ad Halo, dove l’obiettivo è di respingere invasioni aliene o a The Last of Us in  cui si prova a sopravvivere in un mondo ormai condannato da un’epidemia che trasforma la gente in zombie.

 

Insomma, “…i giovani di oggi nei videogame cercano un riscatto dalla realtà, che se nella vita quotidiana sono timidi e riservati, pad alla mano diventano inarrestabili, dei comandanti capaci di portare la loro squadra alla vittoria. Si fanno una fama online, sono seguiti, diventano delle celebrità”.

 

Tra gli altri risultati interessanti del report, anche il ruolo dei videogiochi nel rapporto tra i  nativi digitali e i genitori, quelli che negli anni ’80 giocavano ai videogiochi al bar (rari quelli che avevano la console in casa, ancor di più in cameretta): “grazie anche ai videogame, i genitori riescono a parlare lo stesso linguaggio dei figli. Ed è proprio questo passaggio generazionale ad aver sdoganato i videogiochi, ad averli trasformati nell’opinione pubblica da passatempo per nerd asociali e possibilmente obesi, a forma d’intrattenimento da oltre sessanta miliardi di dollari l’anno, ormai capace di generare guadagni più alti di cinema, musica o letteratura”.

 

Da misterioso passatempo per ragazzini, insomma, i videogiochi sono diventati una delle forme di espressione culturale più importante dei nostri tempi. Basti pensare “che Grand Theft Auto V ha venduto oltre 32 milioni di copie e incassato 800 milioni di dollari in un giorno. Nessuno, nemmeno Avatar di James Cameron, a oggi il film con gli incassi al botteghino più elevati (oltre 2 miliardi di dollari), ha fatto meglio”. (A.T.)

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