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Internet: ecco quanti e quali Paesi bloccano l’accesso ai social network

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L’offensiva contro i social network e YouTube del premier turco Erdogan, uscito vittorioso dalle elezioni amministrative di domenica, considerate un banco di prova della sua popolarità, è stata al centro di forti polemiche e vivaci proteste della comunità internazionale, ma non si può certo dire che sia un caso isolato.

Ci sono, infatti, almeno altri sei paesi che attualmente bloccano Facebook, YouTube e Twitter, in maniera più o meno parziale.

 

Dal 2009, Google ha contato 16 interruzioni di YouTube in 11 regioni, spesso sulla scia di proteste sociali. Nel marzo 2009, il Bangladesh ha bloccato il sito per quattro giorni dopo la pubblicazione di un video di un incontro tra ufficiali dell’esercito e il Primo Ministro che ha rivelato tensioni in campo militare. Il Bangladesh ha bloccato nuovamente la rete per un lungo periodo tra il 2012 e il 2013 a causa di un video anti-Islam. La Libia ha bloccato YouTube (e altri social network) per 574 giorni tra il 2010 e il 2011, dopo che il sito ha ospitato i video delle proteste delle famiglie dei prigionieri uccisi nel carcere di Abu Salim. La Siria ha bloccato YouTube (e Facebook) per circa tre anni, togliendo il divieto solo nel febbraio 2011. Il Tagikistan ha bloccato YouTube più di una volta, l’ultima nel 2013, mentre l’Afghanistan ha bloccato YouTube per 113 giorni tra settembre 2012 e gennaio 2013, sulla scia dei disordini provocati da un film anti-Islam.

 

Twitter, utilizzato come strumento per organizzare proteste durante la primavera araba, è stato chiuso parzialmente o completamente da diversi governi della regione nel 2011, tra cui Algeria, Tunisia, Egitto, Camerun e Malawi. Anche la Bielorussia ha bloccato i principali social network, tra cui Twitter, nel 2011, per sedare le proteste anti-governative. Nello stesso anno, anche un insospettabile come il primo ministro britannico David Cameron ha minacciato, anche se non è mai andato fino in fondo, di vietare l’uso siti di social network, tra cui Twitter e Facebook, sulla scia delle proteste che  hanno interessato il Regno Unito.

 

Anche Facebook è stato anche temporaneamente bloccato in diversi paesi durante la primavera araba. Nel 2010, il Pakistan ha temporaneamente bloccato l’accesso al social network, reo di aver ospitato il concorso ‘Everybody Draw Mohammad Day’. Myanmar ha sporadicamente bloccato Facebook, anche se la Cina sostiene che il divieto è stato revocato nel 2013.

 

 

Ecco quali sono i paesi ‘nemici di internet’:

 


Cina: nel 2009, la Cina ha bloccato Facebook, Twitter e YouTube. Il blocco dei social network è stato deciso dopo che una protesta pacifica degli Uighur, una minoranza islamica che vive nel nord-ovest del Paese, è degenerata e sfociata nel sangue causando oltre 200 morti, 1.700 feriti e migliaia di arresti. 

A settembre 2013 il governo ha deciso di fermare la censura dei siti stranieri nella Free Trade Zone di Shanghai, un’area di libero scambio che negli obiettivi del governo servirà anche per togliere a Hong Kong il ruolo di porta d’accesso al mercato cinese. Ma la maggior parte dei social network sono ancora ampiamente inaccessibili nel Paese.

 

Iran: nel 2009, in seguito alle contestate elezioni presidenziali, l’Iran ha bloccato Facebook, Twitter e YouTube e anche servizi di messaggistica come Viber, WeChat e Whatsapp. Gli utenti riescono ad accedere a questi strumenti soltanto grazie a dei software permettono di aggirare i blocchi imposti dalle autorità. Nel Paese è in realtà in corso uno scontro tra il governo del moderato Hassan Rohani – che ha chiesto più volte l’abolizione della censura, e i conservatori secondo i quali i social media sono una “fonte di deviazione morale per la società iraniana”.

Nei giorni scorsi è intervenuto in favore dei social network anche il ministro degli Interni iraniano, sottolineando che ‘aprire un profilo su un social network non è reato’ e che non esistono norme che vietano agli iraniani di farlo. Ma nel paese, ben tre autorità – il Supreme Council for Cyberspace, l’Organized Crime Surveillance Centre e le Revolutionary Guards – sovrintendono alle politiche repressive del paese che, secondo RSF, continua a monitorare le comunicazioni degli utenti internet, con particolare attenzione verso i giornalisti e gli attivisti politici.

 

Vietnam: il governo non tollera il dibattito politico online e nel 2013 ha approvato una legge che proibisce ai cittadini di pubblicare sui social network contenuti anti-governativi. Blogger e cyber-dissidenti che osano mettere in discussione la legittimità del governo o delle politiche nazionali sono spietatamente repressi. “Le autorità – sottolinea RSF – hanno dispiegato una forza d’attacco giudiziaria, amministrativa e tecnologica, con sede presso il Ministero dell’Informazione e della Comunicazione, che controlla a tappeto l’informazione online”.

 

Pakistan: a settembre 2012, il governo ha bloccato YouTube, dopo che il sito si è rifiutato di bloccare la diffusione del film ‘The Innocence of Muslims’, che ha portato alle violente proteste sfociate nell’uccisione dell’ambasciatore americano in Libia. Attualmente nel paese sono bloccati tra 20 mila e 40 mila siti e il governo sta lavorando a una propria rete – battezzata ‘halal internet’ – per avere un’indipendenza informatica dal resto del mondo.

 

Corea del Nord: La Corea del Nord è uno dei pochi paesi dove la censura può essere giudicata da ciò che si vede online, piuttosto che ciò che non si vede. Il paese non è collegato a Internet e le autorità mantengono la maggior parte della popolazione isolata dal resto del mondo e anche dalla intranet nazionale, anche questa pesantemente ristretta e controllata rigorosamente dall’intelligence.

 

Eritrea: secondo RSF, nel 2011 due dei principali ISP del Paese hanno bloccato l’acceso a YouTube. Il governo, secondo l’ultimo report di Freedom House “richiede a tutti gli ISP di utilizzare solo infrastrutture controllate dallo stato”.

 

 

Questa lista, è ovviamente, parziale non prendendo in considerazione quei paesi che usano censurare solo alcune pagine o video, come ad esempio gli Emirati Arabi – dove le autorità usano una speciale ‘cyber-polizia’ per controllare internet, incluso il suo uso da parte degli attivisti dei diritti umani – o Cuba dove ancora l’accesso a internet è negato alla gran parte della popolazione anche per via degli alti costi.

 

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