Italia
Ho letto con interesse il rapporto Caio e le sue conclusioni e alla fine della lettura non ero soddisfatto.
Ho impiegato un po’ di tempo a capire perché ero insoddisfatto, poiché in realtà il rapporto è fatto bene e le conclusioni sono giuste e condivisibili.
Il motivo della mia insoddisfazione era che non leggevo niente di nuovo: nel rapporto si dice che siamo indietro nella costruzione delle infrastrutture, e lo sapevamo; si dice che bisogna alfabetizzare gli italiani, e lo sapevamo (il 28 novembre l’Istat ci ha fatto sapere che il 42,2% delle piccole aziende italiane pensa che Internet sia inutile). Si dice che bisogna usare i fondi UE, e lo sapevamo. Infatti, sempre secondo dati Istat: delle risorse stanziate dalla UE, nel periodo 2007-2013, per l’ICT del nostro paese ne sono state intercettate, per mancanza di progetti e piani, solo il 50%. Eccetera eccetera.
In varie occasioni ho detto che, e il concetto è presente nel “Manifesto ANFoV 2013”, per come è scritta l’Agenda Digitale Italiana, c’è il rischio di perdere un’opportunità. E in qualche modo, potrei confermare ora questo concetto.
Ma non è così: il rapporto è fatto bene; magari manca di qualche dettaglio, ma dà una buona fotografia dello status quo dell’ADI.
Il problema, a mio parere, è che il concetto di Agenda Digitale, per come è stato decodificato in Italia, è ormai vecchio ed obsoleto.
Il Principio Informatore dell’Agenda Digitale poteva essere giusto due anni fa, quando fu formulato; ma oggi, soprattutto per l’Italia, è vecchio: bisogna fare di più, e fare con priorità cose diverse da quelle dettate dal protocollo dell’agenda.
Bisogna innanzitutto capire veramente che cosa rappresenta il “digitale” in Italia; non solo quello degli utilizzatori, ma anche quello dei fornitori.
Infatti, nel corso del 2013 una crisi senza precedenti ha colpito pesantemente il mercato digitale italiano, che ha registrato una contrazione del -4,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Inoltre, se il mercato italiano ICT è da diversi anni in un trend negativo, la situazione delle aziende che vi operano e producono sul suolo nazionale è molto più drammatica.
Passare da una visione di mercato ad una di realtà produttiva significa quindi prendere atto di un pericoloso arretramento delle imprese italiane in uno dei settori più importanti dell’innovazione. Ho detto innovazione, non ICT.
Come dicono alcuni, il digitale è “il motore a vapore” di questo secolo. E l’economia digitale non è un settore separato, ma un nuovo paradigma, che ha un impatto diretto e indiretto su moltissimi degli elementi di innovazione e riorganizzazione del sistema economico e sociale della nostra società: dal settore editoriale all’industria dello spettacolo, al settore turistico e del terziario, passando per il commercio; passando poi per le grandi trasformazioni del settore delle fonti energetiche e della mobilità sostenibile.
Per far ciò occorre uscire dalla logica tradizionale (e ormai perdente) di concetto di “settore ICT” per abbracciare un più vasto ecosistema di innovazioni fatto di tecnologie wireless, sistemi embedded, fotonica e architetture di sistemi informativi applicate a settori quali energia ed ambiente, trasporti, eHealth, Internet delle Cose e Internet del futuro.
Queste cose pilotano oggi, in tutto il mondo, la futura economia, ma non se ne parla nell’ADI: giustamente, perché l’ADI si prefigge in gran parte di digitalizzare l’esistente.
E non è questo che bisogna fare per stare al passo con i tempi e non essere travolti.
In Italia le imprese con prodotti e soluzioni digitali sono oltre 40 mila, di cui solo 300 di medio/grandi dimensioni con alcuni posizionamenti di leadership nei mercati più emergenti; la gran parte di esse ha scarse capacità di crescita, perciò si auto confina sul solo mercato nazionale e opera negli ecosistemi dei maggiori operatori. Ciò accade anche per la scarsa disponibilità di fondi per la ricerca.
ANFoV ritiene che da troppo tempo manchi un’analisi puntuale sulla presenza delle digital factory sul suolo nazionale, in grado di ricostruirne il perimetro e i punti di forza che negli anni abbiamo perso.
Non stupisce che anche a seguito di tale assenza i Governi che si sono via via succeduti non abbiano mai messo a punto una strategia di sviluppo e sostegno nei suoi confronti. Le pressioni provenienti dall’ “aeronautico” e dall’ “autoveicolistico” sono state sempre più forti di quelle del settore ICT, che pur dà lavoro a molte più persone dei due settori predetti.
La stessa Agenda Digitale che si è concentrata sulla Pubblica Amministrazione, con l’eccezione delle startup, non ha mai fatto riferimento al ruolo dell’industria digitale italiana.
Purtroppo occorre prendere atto, ma non è cosa nuova, che la digitalizzazione non viene considerata ancora una priorità dalla classe politica esistente (salvo eccezioni) e quindi, di conseguenza, dal paese.
Il digitale evidenzia un senso di resistenza implicita nel nostro Paese (digitalizzare la Burocrazia, le farebbe perdere il potere di controllo subliminale e metterebbe allo scoperto le aree criticabili?) e rappresenta un terreno di conflitto sociale e politico in cui si gioca il passaggio ad un’idea diversa di economia e di cittadinanza, che dovrebbe essere supportata in modo corrispondente da un’amministrazione statale differente.
E ne è una prova irrefutabile il fatto che le risorse stanziate dalla UE, come dicevo prima, sono state pochissimo utilizzate.
Di fatto la digitalizzazione del paese non è assolutamente vista come la “nuova economia” su cui puntare per far uscire l’Italia dalla crisi, ma come una sorta di “optional creativo”. La responsabilità di ciò è anche dei media nostrani che spesso hanno gestito, su questo tema, un livello di dibattito pubblico superficiale: è infatti molto raro trovare rappresentate nei palinsesti televisivi o nelle pagine dei quotidiani, indaffarati dalla politica da palcoscenico, momenti informativi e consapevoli su questo argomento.
Questo purtroppo fa sì che, per molti osservatori, le misure insite nell’Agenda Digitale appaiano come un modello di pura digitalizzazione dell’esistente, che tende a conservare le logiche di settore esistenti e di potere presenti nella pubblica amministrazione. Appunto, e non mi stanco di dirlo: una sorta di digitalizzazione della burocrazia esistente.
Se l’Italia è poco avanzata sotto il profilo della capacità di crescere cogliendo le potenzialità offerte dalle tecnologie e dalle piattaforme digitale, grande responsabilità va al settore pubblico che tende a mantenere uno status quo soffocante per il privato che vuole innovare.
In questo senso, la stessa Agenda Digitale corre il rischio di trasformarsi in un’occasione mancata poiché in una logica di autoriforma della PA può limitarsi ad usare le nuove tecnologie per “riperpetuare” in forma moderna la burocrazia esistente.
Occorre quindi che le aziende ed i settori caratterizzati da forte innovazione riacquistino voce e ruolo nel suggerire ed imporre quelle trasformazioni di rinnovamento sostanziale, verso la dimensione del digitale, che può contribuire a superare una crisi che mette a repentaglio la tenuta e lo sviluppo della nostra società.
Accanto, quindi, ad un sostegno all’Agenda Digitale Italiana affinché porti a compimento il grande compito di ridare efficienza alla PA con la riqualificazione degli investimenti digitali che appaiono frammentati, non coordinati e con scarsa logica di obiettivo, ANFOV propone una serie di obiettivi da rivendicare con forza e da condividere anche con altre Associazioni:
Costituzione di un tavolo governativo con i rappresentanti dei ministeri coinvolti, le associazioni di imprese e le principali aziende nazionali con l’obiettivo di formulare il “piano industriale per l’Italia Digitale” che includa priorità, obiettivi, forme di finanziamento.
Cosi come fatto dall’Agenda Digitale Italiana nella PA, razionalizziamo gli sforzi e individuiamo, nel sistema digitale italiano, un numero limitato di “Best Sectors” ai quali dare priorità e che dovrebbe anche guidare le politiche di incentivazione dei partenariati pubblico-privato, che in molti paesi europei sono una realtà consistente ma nel nostro paese stentano a decollare.
I Best Sectors dovrebbero anche guidare le politiche di nuova occupazione giovanile e qualificata.
Creazione, presso la CDP, di un fondo ad hoc per le aziende che intendono investire nelle tecnologie digitali con focus sui settori ad alta priorità individuati.
(*) Lo scritto è stato redatto, in accordo con la Direzione Generale di ANFoV, in collaborazione con Roberto Azzano, Vicepresidente dell’associazione