Italia
Nessuno lo dice, ma tutti lo pensano.
Il Rapporto Caio è stata una grande delusione.
Non si capisce perché sia stato deciso o a cosa possa servire, peraltro con il rischio che si trasformi in un ennesimo boomerang per il povero Enrico Letta.
Qualcuno sostiene che la genesi risalga ad una riunione tenutasi in ambito governativo nello scorso novembre, nel più grande disorientamento in merito alla vicenda Telecom Italia–Telefonica, e con l’intento di fermare in qualche modo l’iniziativa di quest’ultima.
Ma sono supposizioni che lasciano il tempo che trovano.
Rimane invece singolare la scelta di decidere l’incarico relativo alla redazione del Rapporto appena lo scorso 18 novembre con l’impegno di realizzarlo entro la fine dell’anno (Immacolata e Natale compresi) ovvero in 6 (dico sei) settimane, assegnandolo a due esperti stranieri, che presumibilmente poco conoscevano i dettagli delle reti italiane, delle loro genesi, dei nodi che il sistema della politica ha posto negli ultimi cinque anni per rallentarne e in qualche caso bloccarne la crescita a soli fini di deterrenza, per condizionare le scelte di aziende operanti sul mercato.
E così l’altro giorno, dopo aver letto il Rapporto Caio, sono stato preso anche io dalla sconforto indotto dallo scenario di riferimento: un’Agenda Digitale inesistente, gli ultimi due governi (governo Monti prima e ora governo Letta) distanti anni luce dai processi di modernizzazione necessari all’economia digitale, l’Agenzia Digitale incaprettata in modo da non poter decidere nulla, infine, su tutto, la più totale assenza di una politica industriale sulle telecomunicazioni e sulle infrastrutture di rete, che si protrae ormai da quasi 13 anni (l’attenzione dei ministri competenti si è sempre focalizzata sulla TV, quando non addirittura sulla sola RAI).
Cosa pensano gli investitori internazionali dell’Italia?
Collocato in questo scenario, che è appunto lo scenario di riferimento sotto gli occhi di tutti, il Rapporto Caio si rivela come un Rapporto inutile, che non affronta le vere questioni del problema Italiano.
E così, sopraffatto dallo sconforto, ho telefonato in questi giorni ad alcuni investitori nella City di Londra, alcuni tra quelli che seguono il settore delle telecomunicazioni, per capire cosa ne pensassero.
Ho chiesto loro cosa mancasse al Rapporto, quali raccomandazioni avrebbe potuto o dovuto fare Francesco Caio.
La risposta è stata univoca, in modo anche più piatto di quanto non temessi.
La prima questione che gli investitori sottolineano è che Caio ha ignorato completamente la posizione della UE e le raccomandazioni della Commissione europea all’Italia in materia di sviluppo delle reti.
La questione è molto seria, molto più seria di quanto non si pensi.
Ed è una questione politica, non tecnica.
Quello che la commissaria Neelie Kroes da mesi sta dicendo alle autorità italiane, arrivando a minacciare anche l’apertura di una procedura d’infrazione per il prezzi troppo bassi dell’unbundling, è il fatto che in Italia il ritorno sugli investimenti nelle reti di telecomunicazioni è troppo basso e non in linea con gli altri Paesi europei.
Questo è un problema per l’Italia (ed è un problema anche per l’Europa).
Se non si assicureranno adeguati ritorni sugli investimenti, non ci saranno capitali privati disponibili ad investire.
L’unica strada, detto in tutta franchezza e come qualcuno vorrebbe che accadesse in Italia, potrebbe essere quella di far pagare “Pantalone“, cioè sempre noi i cittadini con soldi pubblici che vengono dalle nostre tasche.
Ma lo spazio per gli investimenti pubblici, è bene ripeterlo, deve essere limitato alle aree periferiche, quelle aree dove i privati non investiranno mai e dove occorre comunque assicurare le connessioni alla rete a quella parte di popolazione che non può e non deve rimanere esclusa da Internet.
E poi, perché utilizzare i soldi pubblici quando i gli investitori privati sarebbero in grado di investire a patto che si assicurassero loro le condizioni di mercato orientate ad un adeguato ritorno?
Quello che gli investitori si aspettano è che l’Italia si allinei subito al WAAC, la remunerazione del capitale, degli altri Paesi europei che sono in una situazione simile all’Italia come Spagna e Portogallo, che è attualmente molto più alto di quello riconosciuto in Italia dall’Agcom.
Altra questione fondamentale per gli investitori internazionali è che accesso alle nuove reti (quelle in fibra per intenderci) in Italia non sia più orientato ai costi, ma a prezzi di mercato.
La ragione è molto semplice.
Perché qualcuno dovrebbe investire in una nuova rete e poi dare accesso ad altri ai costi?
Qual è l’incentivo a farlo?
Gli investitori stranieri, ed è questo un altro aspetto sottolineato anche dalla Commissione europea all’AgCom, sono anche molto preoccupati dalla totale mancanza di certezza regolamentare nel nostro Paese.
Il ragionamento che essi fanno è molto semplice.
Se Agcom cambia oggi i prezzi dell’unbundling del rame, domani lo farà anche con la fibra.
Ma quando un operatore investe, ha infatti bisogno di sapere quanto sarà il suo ritorno per un periodo sufficientemente lungo in modo da poter pianificare un Business Plan credibile.
Qual è il vero nodo dello sviluppo italiano? La TV, la vera Killer Application della fibra.
Sempre tornando alla domanda posta ai miei interlocutori londinesi su cosa manca al Rapporto Caio, ho registrato ulteriori elementi dirompenti.
La risposta è stata, anche in questo caso, univoca: ciò che manca al Rapporto è la considerazione del ruolo della TV.
Francesco Caio non ha affrontato il vero problema italiano.
Un problema che si trascina da anni.
Che ha condizionato lo sviluppo della rete italiana e che fa oggi (proprio per le errate scelte del passato, dai tempi di TeleBiella, la prima tv-cavo italiana, del 1971) l’unico Paese europeo che deve pensare alla Rete, senza poter sfruttare l’infrastruttura di distribuzione che in tutta Europa è stata realizzata al servizio della TV.
E perché manca la TV nel Rapporto?
Difficile dire se sia stata una scelta consapevole.
Ma di sicuro in Italia la TV è una questione politicamente troppo scottante.
In Italia non c’è il cavo e la TV viene trasmessa solo su piattaforme free-air, digitale terrestre e satellite.
Se si vuole davvero favorire la fibra bisogna avere un Business Model sostenibile che consenta di aumentare i ricavi degli operatori di telecomunicazioni. Solo così si può entrare nell’economia digitale dalla porta principale.
Anche in Italia come nel resto d’Europa la televisione deve far parte dei servizi erogati dagli operatori di telecomunicazioni.
Questo favorisce un ARPU per famiglia più alto ed un più veloce take-up della fibra (la percentuale degli utenti che decidono di comprare la fibra quando viene passata nelle case).
Lo stesso governo Italiano dovrebbe preparare un vero e proprio Piano per favorire lo spostamento progressivo delle tv e del video sulla fibra, incentivando lo switch-off dal digitale terrestre alla fibra.
Solo in questo modo l’Italia avrà una grande rete di nuova generazione, al servizio dei servizi che l’economia digitale impone. Senza tutto questo saremo risucchiati nella misera del mancato sviluppo.
Se Enrico Letta non si muoverà in questa direzione, forse lo dovrà fare Matteo Renzi.
Se anche quest’ultimo mancasse di farlo, avremmo perso definitivamente la partita dell’economia digitale.
Ma questo non può accadere.