Net neutrality? serve un’alleanza tra Telco e broadcaster

di Alessandra Talarico |

Fermo restando che gli utenti devono essere liberi di accedere a qualsiasi sito, è giusto riconoscere che al momento le società che forniscono un sostegno finanziario vitale per la vita culturale e civile del proprio paese sono molto penalizzate.

Europa


Net neutrality

Il dibattito in corso a livello mondiale sulla net neutrality è spesso considerato come un ‘affare’ che riguarda semplicemente una guerra intestina tra fornitori di accesso a internet e fornitori di contenuti, con i primi (gli operatori tlc) a caccia di soldi dai secondi (società come Google, Facebook, Netflix) per sostenere gli investimenti nelle reti.

Una prospettiva fuorviante, secondo Strand Consult, che nel suo rapporto ‘Understanding Net Neutrality and Stakeholders’ Arguments‘, invita a guardare con attenzione al modus operandi della Norvegia, che ha optato per un approccio ‘soft’ alla questione.

In Norvegia, spiegano gli analisti, “tutte le parti in causa – internet service provider, fornitori di contenuti, sviluppatori di applicazioni, consumatori e governo sono parte attiva di un dialogo volto a cercare soluzioni win-win. E, cosa ancor più importante, la Norvegia ha scelto un modello che cerca di costruire consenso tra gli attori nazionali che contribuiscono finanziariamente alla società norvegese”. Società telefoniche e radioTv pubbliche in primis.

 

Nel rapporto, gli analisti evidenziano, in particolare, come “ISP e società media nazionali hanno molto in comune: entrambi hanno un notevole peso in termini di occupazione ed entrambi pagano tasse che sono una fonte di finanziamento per servizi pubblici essenziali quali la sanità, l’istruzione, le pensioni, i sussidi alla disoccupazione”. I servizi radiotelevisivi pubblici, che vengono finanziati dai cittadini per mezzo del pagamento del canone forniscono in cambio servizi di informazione e intrattenimento molto importanti per la popolazione.   

Telco e società media pubbliche, insomma “…forniscono un sostegno finanziario vitale per la vita culturale e civile del proprio paese”. Ecco perché sbaglia chi ritiene che le due parti siano in conflitto.

 

A differenza loro, invece, le web company come Google, Facebook e Netflix – che pure hanno una vasta platea di pubblico in tutto il mondo – non pagano le tasse né contribuiscono a migliorare la qualità delle infrastrutture nei paesi in cui operano. Eppure, i servizi di Netflix e YouTube, in molti paesi, occupano costantemente fino al 30% della capacità di banda di un intero network, mentre il traffico verso siti come Facebook supera in molti casi quello diretto ai primi 20 siti nazionali messi insieme.

L’interesse delle web company, sottolineano pertanto gli analisti di Strand Consult, “si limita al profitto” visto che non hanno “la missione o gli obblighi di telco e Isp”.

Il ben noto stratagemma del “doppio irlandese con panino olandese” (Double Irish With a Dutch Sandwich), permette loro di trasferire i proventi del business verso le sussidiarie irlandesi e olandesi, per poi traghettare il tutto nei paradisi fiscali. Si tratta, certo, di una pratica del tutto legale, ma non per questo accettabile.

 

Guardando, in particolare, ai servizi radiotelevisivi pubblici, gli analisti notano come anche realtà importanti con un’audience internazionale come la BBC, sono vincolati alla creazione di contenuti legati al paese in cui operano e alle infrastrutture presenti a livello nazionale. Di contro, società globali come Google, Facebook, Netflix e Apple “hanno un business model solo perché qualcun altro gli fornisce le infrastrutture e, in più, ricevono anche un trattamento fiscale favorevole”.

 

Ecco dunque “che su un abbonamento Netflix in Danimarca l’Iva è solo al 3%, mentre un abbonamento a un operatore o a un provider OTT europeo ha un’Iva 8 volte superiore” rispetto al servizio offerta dalla società americana, che come altre web company (Amazon o Apple) ha stabilito nel 2011 la propria sede europea a Lussemburgo.

È inoltre estremamente complicato risalire ai ricavi che queste aziende generano nei paesi in cui operano: “una società come Netflix non rende noto neanche il numero dei suoi utenti in un dato paese, figuriamoci se rivela quanto guadagna“, dicono gli analisti.

 

Proseguendo nella sua analisi, Strand Consult si sofferma su un altro ‘errore’ che spesso si insinua nel dibattito sulla net neutrality, ossia la convinzione che motori di ricerca, social network, sistemi operativi, dispositivi mobili siano ‘neutrali’: “per dirla in parole povere, la discriminazione ha molte facce. Per avere una vera neutralità, le regole dovrebbero essere applicate a tutta la catena di valore e non solo agli ISP”, come viene spiegato meglio in questa nota.

 

E’ inutile sottolineare che gli utenti devono essere liberi di accedere a qualsiasi sito vogliano, ma è anche giusto riconoscere che per come stanno ora le cose, i servizi che contribuiscono meno in termini finanziari sono quelli che riescono a trarne i maggiori vantaggi. “In pratica – concludono gli analisti – gli sforzi per realizzare le reti di nuova generazione, specialmente quelle finanziate dai governi con fondi pubblici (soldi dei cittadini quindi), altro non sono che un ulteriore contributo alle aziende internet Usa”.

 

 

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