Italia
Già operativa la Web Tax, nonostante la proroga al 1° luglio, per le disposizioni riguardanti la tracciabilità per la pubblicità online.
Dal 1° gennaio è, infatti, scattato l’obbligo che l’acquisto avvenga mediante strumenti di pagamento tracciabili che riportino i dati identificativi del beneficiario.
L’adempimento comporta un meccanismo di monitoraggio collegato che impone agli intermediari finanziari una comunicazione delle operazioni direttamente all’Agenzia delle Entrate.
In base all’emendamento alla Legge di Stabilità, fortemente voluto dal presidente della Commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia, i soggetti che acquistano servizi di pubblicità per internet dovranno preoccuparsi d’ora in avanti di acquistarli sempre tramite mezzi di pagamento tracciabili.
Bisognerà, invece, aspettare il 1° luglio 2014 per l’entrata in vigore della disposizione che prevede che gli acquisti di pubblicità online avvengano sempre e comunque attraverso una partita Iva italiana.
In particolare, la Web Tax prevede che le aziende che vendono pubblicità online, specie le grandi web company come Google che sull’eAdvertising hanno costruito le loro fortune versando solo le briciole all’erario, dovranno disporre di partita Iva italiana e adeguarsi al regime fiscale del nostro paese.
Fondamentale anche la parte dell’emendamento che riguarda la stabile organizzazione e tracciabilità dei profitti visto che finora le leggi consentivano agli Over-The-Top (Google, Facebook, Amazon ed Apple) di ricorrere a una serie di artifici per sottrarsi al pagamento delle tasse nei Paesi dove vendono servizi per traghettare i profitti nei paradisi fiscali.
Tra i maggiori sostenitori della Web Tax c’è Carlo De Benedetti, presidente del Gruppo L’Espresso che il 27 dicembre nel suo blog su Huffington Post ha scritto senza mezzi termini che, una volta saputo dell’approvazione della Web Tax, “…Google e le altre multinazionali hanno armato i propri amici sulla rete, nei giornali e tra gli opinion maker. Hanno agito di fino, come si conviene, facendo credere persino a qualche grande quotidiano che una siffatta norma fermerebbe per sempre lo sviluppo dell’industria digitale nel nostro paese. Niente di più falso. Si tratta semplicemente di far versare le tasse a chi opera in Italia con una stabile organizzazione e fa enormi profitti vendendo pubblicità, libri, database sul nostro mercato”.
Per De Benedetti si tratta di “Un atto di giustizia fiscale che nulla ha a che vedere con il ritardo digitale, che semmai è responsabilità della politica. O forse c’è qualcuno che pensa che, facendo pagare il dovuto a Google & C., lo Stato li farebbe fuggire altrove? Semplicemente ridicolo”.
Anche l’Huffington Post Italia ha preso una netta posizione a favore della Web Tax con un articolo a firma di Claudio Giua, direttore innovazione e sviluppo del Gruppo Espresso, che è intervenuto prendendo spunto dall’articolo pubblicato il 4 gennaio dal Financial Times, in polemica con gli affossatori della Web Tax.
Per Giua, “Chi, pur avendo dimestichezza con la rete, s’è rallegrato per lo stop alla norma Boccia non si rende conto che non affrontare il problema del disequilibrio fiscale ha conseguenze che sono – loro sì! – quelle paventate dai maître-a-penser nativi digitali nel caso di introduzione della Web Tax: la distruzione di quote significative dell’industria italiana, il soffocamento nella culla di nuove iniziative imprenditoriali”.
Intanto, però, non si sedano le polemiche e proprio oggi Stefano Parisi, presidente di Confindustria Digitale, è tornato all’attacco sulle pagine dell’Huffington Post, per dire che la norma “…è incompatibile con il diritto comunitario. Obbligare le aziende italiane ad avere rapporti commerciali esclusivamente con soggetti titolari di partita Iva italiana è in evidente violazione dei principi del mercato interno e della libertà di insediamento e di scambio del diritto comunitario”.
Ma ancora risulta poco chiaro quali siano le evidenze alle quali si riferiscono quelli che come Parisi parlano di incompatibilità della norma con il diritto comunitario.
Per Parisi, “E’ giusto che Google paghi le tasse sul reddito prodotto in Italia, per le attività economiche che si svolgono in Italia”, ma ha aggiunto che “a questo si deve arrivare con un accordo tra l’Agenzia delle entrate e l’azienda”.
Lo scorso anno gli OTT hanno versato all’erario italiano solo 9,157 milioni di euro (5,98 se si considerano i crediti d’imposta).
Google non ha pagato tasse (anzi ha 5.454 euro di credito d’imposta) con la Technology Infrastructure e ha versato 1,8 milioni con Google Italy srl. Cifra veramente piccola, visto che secondo le stime degli analisti il giro d’affari dell’azienda di Mountain View legato al mercato pubblicitario italiano è di 700 milioni di euro.
Facebook (che secondo le stime nel 2012 ha raccolto pubblicità per 35-40 milioni) ha dichiarato 3 milioni di giro d’affari, pagando 131.037 euro con la Italy srl. Apple ha pagato 648 mila euro con laApple Retail Italia (ma con un credito d’imposta di 3,177 milioni) e 5,529 milioni con Apple Italia.
In Gran Bretagna dove, sulla scia di quanto pubblicato alcuni giorni fa dal Financial Times, si sta registrando una nuova mobilitazione contro le multinazionali di internet che eludono il fisco e ci si interroga su come tassare l’economia digitale, facendo riferimento proprio al tentativo italiano.
Il Primo Ministro David Cameron aveva promesso la linea dura contro i ‘furbetti’ del fisco e Margaret Hodge, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’evasione fiscale.
Ma l’Italia, che ha fatto da apripista in una materia complessa e spinosa quale appunto fisco ed economia digitale, dovrà aspettare sei mesi per poter, una volta effettuate tutte le verifiche del caso, applicare ciò che i detrattori hanno definito Web Tax, ma che in realtà è solo un tentativo di costringere le compagnie della rete e pagare come tutti le tasse dove fanno i loro profitti.
Il presidente esecutivo di Google, Eric Schmidt, non s’è mai scomposto e ha sempre detto “Fate le leggi e noi le rispetteremo“.
Il governo ha adesso sei mesi per concordare una linea con la maggioranza che lo sostiene e con i paesi europei, come Francia, Gran Bretagna e Germania, già apertamente schierati contro le pratiche di ottimizzazione fiscale, la linea da seguire.