Social network, tutti i rischi per chi cerca lavoro

di Alessandra Talarico |

Uno studio della Carnegie Mellon University pone l’accento sulle conseguenze indesiderate delle info che postiamo sui nostri profili social, soprattutto per chi è a caccia di lavoro.

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Si è discusso a più riprese delle conseguenze inaspettate dell’uso dei social media che sono ormai diventati una vera miniera di notizie sul nostro conto, anche per i nostri aspiranti datori di lavoro. Un risvolto quanto mai delicato, soprattutto in un’epoca di disoccupazione dilagante e di altrettanto dilagante ‘social-mania’, è stato riportato alla ribalta da uno studio condotto negli Usa dalla Carnegie Mellon University, secondo cui sono sempre di più le aziende che spulciano nel profilo ‘social’ dei candidati e che tendono a usare quello che hanno trovato per discriminarli.

Secondo lo studio – basato sull’invio di curricula ‘posticci’ abbinati ad altrettanto finti profili social (Facebook, LinkedIn, Twitter) ad aziende con almeno 15 posizioni aperte – tra il 10% e il 33% dei responsabili risorse umane ha cercato sui social informazioni sui candidati. E’ risultato che per coloro i quali era stato indicato nel profilo di essere di religione musulmana c’erano meno probabilità di essere contattati per un colloquio rispetto a quelli di religione cristiana.

La differenza è risultata evidente, in particolare, nelle aree a forte prevalenza ‘conservatrice’. In Stati come Alabama, Arkansas, Idaho, Kansas, Kentucky, Nebraska, Oklahoma, Utah, West Virginia e Wyoming, i candidati cristiani sono stati richiamati il 17% delle volte, contro il 2% dei musulmani.

Meno interessanti, agli occhi dei selezionatori, le preferenze sessuali dei candidati, almeno nelle fasi iniziali del processo di assunzione. Ma, dicono i curatori dello studio, anche questo aspetto viene approfondito sui social, perché rientra in quelle tematiche su cui raramente i datori di lavoro si azzardano a fare domande dirette. La tecnologia, insomma, permette di trovare facilmente queste informazioni.

 

Tra l’altro, hanno spiegato i ricercatori, la discriminazione può avvenire anche in maniera inconscia: i datori di lavoro – ha spiegato Christina Fong al Wall Street Journal – possono essere influenzati anche in maniera ‘inconscia’, come del resto avveniva prima dei social network quando a far scattare il campanello d’allarme era magari un nome sul curriculum di origine afro-americana.

 

Lo studio pone l’accento su un aspetto più volte esaminato: ossia la mole di informazioni generata dalle nostre diverse attività online, senza che a volte neanche ce ne rendiamo conto. E questo non vuol dire per forza postare foto imbarazzanti o commentare notizie ‘sconvenienti’: sono molte le cose che possono influenzare chi ci esamina in vista di una possibile assunzione.

Citare, ad esempio, nello status uno stralcio di un testo religioso può essere indicativo delle nostre convinzioni oppure – nel caso di una donna – insistere su foto di bambini può suggerire che la potenziale candidata è incinta o ha appena avuto un bambino e questo, spesso, è purtroppo non visto di buon occhio dai datori di lavoro.

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