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#ddaonline, Simone Aliprandi: ‘Nessuno parla delle licenze open’

Italia


Riportiamo di seguito l’intervento di Simone Aliprandi, avvocato e consulente in materia di diritto d’autore. Il testo di questo articolo è sotto licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

 

 

Se devo esprimere un mio personale parere sul dibattito che sta proseguendo da qualche mese in merito a possibili interventi di riforma nel campo del diritto d’autore, l’impressione che ho è che non si tenga nella dovuta considerazione la ormai fitta frangia di autori, produttori e utilizzatori di opere con licenze open. Ho l’impressione che il tutto sia appiattito su una polarizzazione tra gli interessi di coloro che sono interessati ad una tutela più forte ed efficace e i diritti di libero accesso alla cultura degli utenti; senza però considerare che ad oggi la rete pullula di contenuti creativi (a volte anche di elevatissimo pregio) rilasciati con licenze che ne permettono espressamente la copia, la ridistribuzione e a volte anche la modifica.

 

Qualcuno anni fa, disquisendo sulla portata del fenomeno Creative Commons, parlava di una sorta di riforma dal basso del sistema del copyright: una riforma che, pur non toccando il livello legislativo, di fatto è stata realizzata attraverso l’innovazione dei modelli contrattuali e dei modelli di gestione dei diritti. Infatti, chi nei primi anni 2000 ha dato il via al progetto Creative Commons sapeva che, quand’anche i legislatori non si fossero adattati tempestivamente alle nuove istanze portate dalla rivoluzione digitale, era comunque possibile creare un humus di creatività libera dai tradizionali vincoli del copyright spingendo gli autori stessi (gli originari titolari dei diritti) ad autogestire i loro diritti con licenze di tipo open; avviato così un circolo virtuoso di cui adesso non si può non tenere conto. La maggior parte delle nostre ricerche su internet, anche se non tutti ne sono consapevoli, ci porta a un contenuto rilasciato proprio con quelle licenze, cioè ad un pagina di Wikipedia o ad un file di Wikimedia Commons; e quei contenuti vengono poi continuamente linkati e replicati in altri contesti e altre opere. Dunque questa riforma (dal basso e non legislativa) è ora un fatto storico, un processo irreversibile, che il diritto vivente e la giurisprudenza non possono ignorare.

 

Mi fa specie dunque vedere che l’attuale assetto normativo sul diritto d’autore non consideri l’esistenza di questo fenomeno, come ad esempio avviene nel discusso regolamento Agcom. Le uniche norme che ne tengono conto sono quelle relative al cosiddetto principio “open by default” e sono contenute nel Codice dell’amministrazione digitale senza alcuna corrispondenza nella legge sul diritto d’autore, aumentando così la frammentarietà e farraginosità del nostro sistema normativo. “Questioni di riparto di competenze tra Ministeri” mi dissero; perché pare che il CAD lo si possa modificare anche più volte nell’arco di un anno, mentre la legge sul diritto d’autore si tende a modificarla solo quando una direttiva europea ci costringe a farlo, oppure al massimo scriviamo bizzarri regolamenti (che sono norme secondarie e che a volte – come nel nostro caso – destano molte perplessità).

 

Intendiamoci: le licenze open, in quanto negozi giuridici di diritto privato, sono fatte per funzionare sulla base dei principi di base del diritto d’autore e non hanno quindi bisogno di un riconoscimento a livello legislativo per la loro efficacia. La questione è su un altro piano: sul piano dei modelli di gestione dei diritti e di distribuzione delle opere. Questi modelli sono cambiati profondamente con l’avvento della società dell’informazione e leggi che continuino a utilizzare categorie concettuali superate (come ad esempio lo stesso concetto di “copia”) saranno leggi destinate a rimanere sulla carta e a diventare obsolete in poco tempo.

Il testo di questo articolo è sotto licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia. 

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