Italia
Donne sempre più protagoniste della vita istituzionale, sociale, economica, familiare? Non basta: nonostante qualche “nuvola rosa” – e il termine nuvola non è affatto casuale, visto l’impatto del cloud computing anche in tema occupazionale – nel mondo digitale “il cielo è sempre più blu” (come recita una famosa canzona di Rino Gaetano).
Nel rapporto finale della Commissione Europea “Women active in the ICT sector” è, infatti, emerso un dato sconcertante, e cioè l’alto divario di genere tuttora esistente nel settore delle ICT e in modo particolare a livello imprenditoriale.
Dalla recente ricerca “Do Italian startups live in the city?” presentata durante la conferenza annuale della SASE (Society for the Advancement of Socio-Economics) a Milano lo scorso giugno 2013, si evidenzia come in Italia solo l’11% di startuppers – su un totale di 440 startup digitali prese ad esame – appartenga al genere femminile, mentre in altri settori le imprenditrici raggiungono il 24%.
A cosa è dovuto questo gap digitale che appare ancor oggi insanabile in Europa?
Anzitutto, le donne europee non intraprendono percorsi di studi legati alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC o, in inglese, appunto ICT); inoltre il genere femminile è sotto-rappresentato nel settore, specialmente nelle posizioni più tecniche e di decision making. Ma il potenziale non manca di certo. Ancor più in un periodo come quello attuale in cui la sharing economy prende sempre più piede, ribaltando efficacemente la cultura del consumo e fornendo tempestive risposte alla crisi perché si riferisce a sistemi economici e sociali che consentono l’accesso condiviso a beni, servizi, dati e talento. Fin dalla definizione che il Wall Street Journal dà a questa “economia della condivisione” (denominata anche “consumo collaborativo”) si percepisce il senso di novità e di cambiamento: «mercati di nicchia per tutte quelle cose o servizi che diventano economici se ci mettiamo insieme per usarli». Questi mercati o servizi assumono una varietà di forme, ma tutte sfruttano le ICT per responsabilizzare individui, enti, società, no-profit, istituzioni. Accanto alle nuove forme di economia condivisa, nascono, infatti, nuovi modelli imprenditoriali che potrebbero adattarsi ancor meglio agli stili manageriali propri del genere femminile, il quale potrebbe pertanto acquisire nuova centralità. Ad esempio, il crowdsourcing è un modello di business con cui si affida lo sviluppo o la progettazione di servizi, progetti, idee, contenuti ad un folto gruppo indefinito di persone (non organizzate precedentemente), e in particolare da comunità online, piuttosto che dai tradizionali dipendenti o fornitori o finanziatori. Questi processi, favoriti dagli strumenti che mette a disposizione la rete, sono spesso utilizzati per le attività di fundraising di start up aziendali o di eventi di beneficienza (con l’attività di crowfunding). E sembra proprio che tra i promotori di campagne di crowdfunding in Italia sono più numerose le donne.
Appare evidente che il senso pratico, la responsabilizzazione e l’organizzazione insiti nelle donne possono rappresentare quel quid pluris adatto persino a ridurre il gap di genere a cui si riferisce anche il report della Commissione Europea.
Lo studio “Women active in the ICT sector” si prefigge diversi obiettivi, raggiungibili attraverso ulteriori sforzi volti a superare il problema e ad incoraggiare le donne ad intraprendere o a proseguire un percorso lavorativo nel settore delle ICT: ricostruire un’immagine rinnovata e attualizzata del settore, migliorarne le condizioni lavorative, aumentare i poteri delle donne e il numero di startuppers femminili nel campo delle ICT.
Una più attiva partecipazione delle donne nelle ITC sarebbe senz’altro fondamentale per la crescita economica dell’Europa nel lungo periodo, essendo legata in modo particolare al progresso tecnico dovuto all’innovazione tecnologica: se l’occupazione femminile raggiungesse i tassi di quella maschile nel settore digitale, il PIL europeo sarebbe, infatti, destinato a crescere di nove miliardi l’anno! (Leggi Articolo Key4biz)
Vogliamo ancora chiamarlo “il sesso debole”?
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