Editoria e internet, De Benedetti: ‘Stesse regole per tech company ed editori’

di Raffaella Natale |

L’editore chiede: parità di condizioni nelle indicizzazioni; libertà di rapporti commerciali con i propri clienti; parità di normative per la protezione dei dati personali’.

Italia


Carlo De Benedetti

Parla di ‘rivoluzione culturale’ e dei problemi degli editori davanti all’avanzata della carta digitale, Carlo De Benedetti, editore del gruppo L’Espresso, nel suo intervento di oggi all’Internet Festival di Pisa, pubblicato con un post sull’Huffington Post.

“Il digitale non è solo un ‘nuovo mezzo’ che sta sostituendo in parte o in toto altri mezzi (carta, tv eccetera): il digitale è un universo che vive secondo leggi tanto diverse dal passato quanto la fisica moderna è diversa da quella di Galileo e Newton”.

Per De Bendetti, “…l’universo digitale ha messo in crisi tutti i media di massa (la carta stampata ne è solo la prima e più visibile vittima), in particolare il modello classico dei media giornalistici. In altre parole, è in crisi il modello di sostenibilità economica dei giornali. Dunque vanno ridefiniti il prodotto giornalistico e l’organizzazione del lavoro necessaria per crearlo”.

 

C’è, però, anche una buona notizia, sottolinea l’editore di Repubblica: “…i giornali soffrono ma il giornalismo sta vivendo la sua migliore stagione da sempre. Per merito della tecnologia di massa, qualsiasi fatto può essere documentato e raccontato in tempo reale: ovunque c’è uno smartphone che ferma l’evento e i suoi protagonisti, qualcuno che lo twitta e ritwitta, un giornalista che controlla e rilancia. Nel giro di minuti”.

Quella meno buona è che “…nell’universo digitale l’informazione – come la musica, come l’intrattenimento – viene considerata da molti una commodity a basso o nessun prezzo. Mentre restano altissimi i costi a carico di chi quell’informazione la confeziona giorno dopo giorno”.

 

De Benedetti evidenzia che stanno esplodendo i ricavi di motori di ricerca, aggregatori, social network che usano i prodotti del lavoro giornalistico altrui per attrarre utenti che vengono immediatamente valorizzati grazie alla distribuzione di pubblicità in modo mirato (come fa Google grazie all’incrocio dei dati ottenuti dalla miriade di servizi propri).

Ripeto: una quota crescente della pubblicità va già adesso a soggetti che non sono editori, nel senso che non hanno come mission la produzione di informazioni: si occupano di e-commerce e distribuzione di prodotti fisici, di organizzare le ricerche sulla rete come Google (che raccoglie in Italia circa 800 milioni di euro ogni anno) oppure di mettere in contatto fra di loro centinaia di migliaia di persone, come fa Facebook. E raccolgono pubblicità. Per non lasciar squilibrare in misura non recuperabile la situazione, bisogna intervenire rapidamente con norme che ridistribuiscano le risorse correttamente rispetto agli investimenti per la costruzione dei contenuti”.

 

L’editore si domanda allora: “E’ ancora logico dividere in modo così evidente l’industria culturale in “produttori” e “diffusori”? In “contenuti” e “canali di distribuzione”? Ha ancora un senso la distinzione che – per esempio – continua a fare Google che si definisce una “technology company”, distinta da una “content company”?”

 

Questi grandi player che si definiscono “tecnologici” o “commerciali”, per De Bendetti debbano essere “soggetti alle stesse regole cui siamo soggetti noi, che ancora amiamo definirci “editori””.

Di qui nascono le azioni al livello nazionale e sovranazionale, dall’esigenza di avere un “plain level field”, un campo dove i soggetti possano farsi concorrenza alla pari, senza sfruttare indebitamente posizioni dominanti in mercati dove anche un editore classico, divenuto digitale, deve poter emergere“.

Intanto, dice l’editore, chiediamo: “…parità di condizioni nelle indicizzazioni; libertà di rapporti commerciali con i propri clienti; parità di normative per la protezione dei dati personali”.

 

Un esempio di come il digitale sta trasformando l’editoria arriva oltremanica, dal Financial Times.

In una lettera informale, Lionel Barber, direttore del quotidiano economico-finanziario della City, racconta come intende cambiare il suo giornale. Per Barber, è ormai morto quel modello produttivo impostato per la sola edizione cartacea destinata all’edicola.

Guardare al Financial Times è interessante perché, a oggi, è uno dei pochi esempi di sostenibilità economica sul web: Ft.com ha più di 310 mila abbonamenti digitali attivi. Il sito non punta a massimizzare il numero dei visitatori, perché il suo modello di business è basato sul pagamento dei contenuti, con un paywall rigido.

 

La trasformazione di cui parla Barber nella sua lettera sarà radicale e coinvolgerà per intero il modello di lavoro dei redattori: non dovranno più pensare allo spazio in pagina, dovranno fare un lavoro di pianificazione, il processo produttivo sarà simile a un palinsesto. I giornalisti non dovranno più pensare alle chiusure ma interagire con i lettori e imparare ad aggregare contenuti, anche provenienti da altre fonti.

Insomma il lavoro di redazione sarà modellato sull’online: le pagine dell’edizione cartacea deriveranno dalle notizie del sito web e i turni di lavoro saranno modellati di conseguenza (non più prevalentemente serali, ma mattutini e pomeridiani).

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