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Web company e tasse, OK dalla Commissione Finanze della Camera

Italia


Le multinazionali del web dovranno pagare le imposte in Italia per le attivita’ riferibili al nostro Paese in percentuale ai ricavi. Lo prevede un emendamento del Pd alla delega fiscale, approvato in commissione Finanze della Camera. L’emendamento presentato dal gruppo del Pd delega il governo a emanare, nei decreti legislativi di attuazione, delle norme che prevedano “l’introduzione, in linea con le raccomandazioni degli organismi internazionali e con le eventuali decisioni in sede europea, di sistemi di tassazione delle attività transnazionali, ivi comprese quelle connesse alla raccolta pubblicitaria, basati su adeguati sistemi di stima delle quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale”. Si tratta di quello che in gergo tecnico si chiama “aportionment”, che consiste che far pagare alle multinazionali con sede fiscale all’estero, le tasse in Italia per la parte di ricavi che si stima sia stata prodotta nel nostro Paese.

 

Argomento molto caldo quello che riguarda le web company e le tasse. L’Agenzia delle entrate ha avviato da qualche giorno un’operazione attenta e approfondita sulle associazioni che raggruppano in Italia le multinazionali americane per verificare se per gli anni 2010-2011 ci sono indizi di una ‘stabilizzazione‘ di questi uffici nel nostro Paese. Uffici che spesso non vengono indicati come reali strutture di vendita ma di mero appoggio all’attività.

 

Il problema è sempre lo stesso e coinvolge in primis i cosiddetti Over-The-Top, vale a dire le grandi web company come Google, Facebook o Amazon, che ricorrono a una serie di escamotage per non pagare, o farlo al minimo, le tasse negli Stati dove offrono i loro servizi.

 

Secondo i dati riportati oggi dal Corriere della Sera, nel 2012 gli OTT hanno versato all’erario italiano solo 9,157 milioni di euro (5,98 se si considerano i crediti d’imposta).

Più precisamente, Amazon, che opera in Italia con due società – Italia Logistica e Corporate Service – ha pagato poco più di un milione di euro.

Google non ha versato tasse (anzi ha 5.454 euro di credito d’imposta) con la Technology Infrastructure e ha pagato 1,8 milioni con Google Italy srl. Cifra veramente piccola, visto che secondo le stime degli analisti il giro d’affari dell’azienda di Mountain View legato al mercato pubblicitario italiano è di 700 milioni di euro.

Facebook (che secondo le stime nel 2012 ha raccolto pubblicità per 35-40 milioni) ha dichiarato 3 milioni di giro d’affari, pagando 131.037 euro con la Italy srl. Apple ha pagato 648 mila euro con la Apple Retail Italia (ma con un credito d’imposta di 3,177 milioni) e 5,529 milioni con Apple Italia.

 

Il tutto si colloca in un’operazione internazionale. All’inizio di settembre, in occasione del G20 a San Pietroburgo, i leader mondiali hanno trovato l’accordo su un Piano d’azione per combattere l’evasione fiscale e prevenire che le multinazionali sfruttino scappatoie e paradisi fiscali per pagare delle tasse minime (Leggi Articolo Key4biz).

 

Nella dichiarazione finale si legge che la priorità è che tutti contribuenti paghino le tasse, senza ricorrere a pratiche di ‘pianificazione fiscale aggressiva’ per sottrarsi alle imposte. 
Una sfida quanto mai attuale, davanti alla crescita dell’economia digitale. In questo senso i leader del G20 hanno dato ampio sostegno al Piano presentato dall’OCSE, invitando tutti i paesi interessati a sostenerlo (Leggi Articolo Key4biz). 

 

Il problema delle web company americane che si sottraggono al fisco riguarda anche gli Stati Uniti (Leggi Articolo Key4biz). Più di mille aziende americane generano 1.700 miliardi di dollari all’estero, stando a un’analisi diffusa da JP Morgan. Tuttavia molte di queste aziende sostengono che il peso fiscale degli Stati Uniti sia troppo alto rispetto a quello degli altri Paesi occidentali.

 

Ovviamente non c’è nulla d’illegale in tutto ciò. Si tratta, infatti, di sfruttare le lacune delle varie legislazioni per spostare i capitali nei Paesi dove la tassazione è più vantaggiosa. Spesso si adotta la cosiddetta strategia del “doppio irlandese con panino olandese” (Double Irish With a Dutch Sandwich), che consiste nel trasferire i denari verso le sussidiarie irlandesi e olandesi, per poi traghettare il tutto ai Caraibi.

In fine, quindi, tutte queste grandi multinazionali si arricchiscono vendendo servizi prodotti in tutti i Paesi, ma sfuggono al fisco portando le loro ricchezze nei paradisi fiscali.

 

Nel luglio scorso, il premier Enrico Letta aveva preso un forte impegno contro le multinazionali furbette che praticano selvagge operazioni di ottimizzazione fiscale. Il governo farà una “lotta senza quartiere” contro l’evasione nei paradisi fiscali, aveva detto, in un incontro con i dipendenti dell’Agenzia delle entrate ed Equitalia (Leggi Articolo Key4biz). L’esecutivo, aveva annunciato, andrà alla ricerca dei capitali portati all’estero “dovunque siano nei paradisi fiscali, in Svizzera come ai Caraibi“, perché “non è giusto che tanta ricchezza sia stata prodotta in Italia e poi portata via senza contribuire allo sviluppo del Paese’.

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