Italia
Il 18 giugno 2013 i leader del G8 a Belfast hanno sottoscritto l’Open Data Charter: 5 principi strategici e 14 aree tematiche (tra cui scuola, trasporti, salute, criminalità, giustizia) da presidiare con l’obiettivo di rendere il proprio patrimonio informativo pubblico aperto “by default”, incrementare la qualità e la quantità dei dati pubblicati e le possibilità di riuso dei dati stessi.
I dati così aperti e liberati dispiegheranno il loro potenziale economico, sosterranno l’innovazione nel campo dei servizi e della conoscenza e contribuiranno a una maggiore trasparenza.
Nella stessa settimana, sia al G8 di Belfast che a Dublino – in occasione della Digital Agenda Assembly 2013 – sono stati stimati in centinaia di migliaia, qualcuno ottimisticamente ipotizza milioni, i nuovi posti di lavoro che si verranno a creare grazie alla disponibilità e al trattamento degli open data e dei big data, e in diversi punti di PIL il risultato dell’impatto economico dei nuovi servizi che saranno disponibili.
Ho enfatizzato il concetto di nuovi perché ritengo doveroso marcare la netta differenza di approccio tra chi ritiene opportuno utilizzare i fondi strutturali come spesa corrente per la difesa di occupazione e posti di lavoro purtroppo a rischio ma in ogni caso destinati nel prossimo futuro – a mio avviso – a essere materia dai paesi emersi ed emergenti – almeno fino a quando non affioreranno nella loro drammaticità i problemi sociali e dello sviluppo sostenibile – e chi – io sono uno di questi – pensa invece che occorra investire in nuove competenze per la creazione di nuovi posti di lavoro e di nuova tipologia occupazionale.
Se non agiremo per tempo sviluppando impresa e business nel campo del trattamento dei dati per l’abilitazione di servizi e di modelli previsionali, correremo il rischio – in un settore dove non esistono vincoli logistici di prossimità – che altri lo facciano prima e meglio di noi diventando, grazie alla rete, alle infrastrutture digitali e in un mercato ormai globalizzato, i nostri fornitori per chissà quanto tempo forti delle loro competenze digitali.
Open by default e potenziale economico dei dati.
Partiamo da qui per fare il punto della situazione in Italia e, in piccolo, nella mia Regione.
Il Piemonte ha fortemente dimostrato nei fatti la sua reputazione open.
Siamo stati i primi in Italia ad adottare i principi della Direttiva Europea sulla PSI e a lavorare sia sul piano normativo che su quello tecnico e organizzativo, anche attraverso il confronto e il costante orientamento delle decisioni lungo l’intero percorso di una progettazione bottom-up, fino alla pubblicazione del portale dati.piemonte.it.
È di fine 2011 la Legge – la prima in una regione italiana – che ha dato un impulso decisivo all’attuazione della politica di riuso del patrimonio informativo regionale e ha definito principi e indirizzi per il sistema open data piemontese, compreso il principio della “più ampia e libera utilizzazione gratuita, anche per fini commerciali e con finalità di lucro“.
Anche se, come ricordo spesso, non si dovrebbe fare innovazione con le leggi purtroppo, allo stato attuale, occorre ancora solidificare e rendere legittime le esperienza di frontiera mettendole in sicurezza con lo strumento legislativo.
È stata garantita la massima apertura e gratuità con l’utilizzo delle licenze Creative Common CC0 o CC BY, che pongono i dati in pubblico dominio e liberamente utilizzabili e introducono inoltre la possibilità per il cittadino di comunicare direttamente con la PA e richiedere i dati.
Uscendo dal suo territorio, la Regione Piemonte ha promosso progetti interregionali con le modalità proprie del riuso: il Comune di Milano, ha realizzato il riuso della piattaforma dati.piemonte.it, con la Regione Emilia Romagna abbiamo siglato un protocollo di intesa per collaborare in tema di accesso, fruibilità e riuso dei dati pubblici, attraverso lo sviluppo condiviso di un portale per la gestione e diffusione di dati pubblici, con la Regione Sicilia è in atto un progetto di gemellaggio per il riuso della soluzione piemontese.
Guardando oltre, Regione Piemonte è capofila del progetto europeo Homer (Harmonising Open Data in the Mediterranean through better access and Re-Use of Public Sector Information), che promuove una strategia coordinata fra le regioni Europee nel Mediterraneo per accelerare il processo di trasparenza ed il riuso dei dati pubblici, ed è partner di Open-DAI (Opening Data Architectures and Infrastructures of European Public Administrations), per rendere disponibili dati e piattaforme per i servizi pubblici digitali.
In altre parole.
Una volta compreso il principio che il riutilizzo dei dati pubblici è un diritto ed una risorsa, la macchina regionale si è mossa rapidamente e si è impegnata a superare le posizioni più “conservatrici” per aprire i suoi database per la creazione di prodotti e servizi innovativi, innescando meccanismi virtuosi propri dell’open government.
Valicare la logica del possesso, dimostrando di non avere timore di commettere errori e fiducia nella comunità, ha consentito di raggiungere come ottimo risultato la prima esperienza significativa in Italia in materia di accessibilità e riutilizzo dei dati.
Quali ostacoli dobbiamo ancora superare?
Di certo la cultura degli open data si sta diffondendo, ma è forte la tendenza innata della PA a ragionare ancora in una direzione poco citizen oriented e ad agire in risposta alla necessità di ottemperare ad obblighi di legge piuttosto che cogliere il reale valore dell’operazione.
Inoltre, una volta resi pubblici i dati devono essere lavorati, riletti, riutilizzati dalla comunità: il portale non è una vetrina ma un trampolino per la creazione di nuovi servizi, applicazioni, prodotti che possano competere e arricchire le opportunità esistenti.
La speranza è che il valore di operazioni simili cresca proporzionalmente alla quantità di dati e si diffonda la consapevolezza che il riuso di dati pubblici può e deve alimentare innovazione e competizione.
Sta succedendo ma – onestamente – con una dimensione e una qualità minore rispetto alle attese.
Si deve ancora comprendere appieno la portata dei dati pubblicati e le opportunità di business che essi possono offrire, declinando competenze, esigenze e creatività che non possono mancare nell’era dei civic hacker.
Il lato positivo.
Fortunatamente, l’open data ha generato altre buone pratiche.
Si è compreso che la cultura del dato aperto è molto importante ma non è l’unico aspetto di cui tenere conto.
Questo è il momento per provare a definire un insieme armonizzato di dati da rendere disponibili e open ma è anche arrivato il tempo per cogliere l’opportunità di reimpostare il tema del “Governo del dato pubblico”.
In questo l’Agenzia per l’Italia Digitale dovrà avere – ed avrà – un ruolo strategico e centrale, definendo indirizzi chiari a cui le regioni, ma più in generale la PA centrale e locale – compreso il mondo composito delle partecipate pubbliche – potranno ispirarsi. Non certo secondo un’impostazione centralistica, ma secondo una logica partecipata basata sulla autorevolezza più che sulla autorità.
L’Open by default dell’informazione pubblica deve anche diventare un mezzo, un’opportunità attraverso cui rileggere i sistemi informativi pubblici e sulla base del quale definire e reimpostare un nuovo modello tecnologico e organizzativo della PA.
L’Open by default dell’informazione pubblica può diventare un mezzo, un’opportunità per creare nuovi modelli di business e generare valore.
Ma su questo fronte la parola passa a chi sarà in grado di partire dai dati per sviluppare nuove idee.