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5 anni fa non esisteva traccia di spese di lobbying da parte delle web company, mentre nel 2012, in coincidenza col dibattito sulla direttiva ‘data protection’, Google, Microsoft, Facebook, Yahoo, Apple ed eBay hanno ‘investito’ più di 10 mln di euro. Ma ora lo scandalo Prism rischia di vanificare questi sforzi.
Per lungo tempo si è pensato che l’astroturfing, ossia la costituzione di finti movimenti di opinione ‘dal basso’, fosse un fenomeno attecchito soltanto in suolo americano, che la vecchia Europa fosse immune dalle pressioni di gruppi falsamente popolari votati invece a far emergere i loro interessi attraverso tattiche subdole comparabili alla pubblicità ingannevole. Ma a quanto pare non è proprio così. Ne parla ampiamente il Financial Times, in un articolo focalizzato proprio sull’argomento.
Esempio clamoroso di come i gruppi di pressione americani siano sbarcati anche a Bruxelles con l’obiettivo di creare consenso, pilotare informazioni ed ‘educare’ l’opinione pubblica è la European Privacy Association: quando due anni orsono la Ue creò il suo registro ‘sulla trasparenza’ – per rendere noti i nomi di qualsiasi soggetto (lobbisti, associazioni, ong ecc) ambisse a influenzare la politica europea – l’associazione si era auto classificata come un think tank senza legami con interessi corporativi e con l’obiettivo di animare il dibattito sulla protezione dei dati personali online. A maggio di quest’anno, tuttavia, in seguito a un reclamo presso il registro Ue, il gruppo è dovuto uscire allo scoperto e rivelare che il grosso dei suoi finanziamenti arriva da web company quali Google, Facebook, Microsoft e Yahoo, cambiando quindi il suo status da ‘think tank’ a ‘in-house lobbying group’
Un cambiamento che palesa come l’offensiva delle lobby americane si sia rafforzata negli ultimi due anni, in concomitanza con i lavori di revisione, tuttora in corso, della direttiva europea sulla protezione dei dati personali (Leggi articolo Key4biz): le pressioni esercitate da queste aziende, anche tramite le diverse associazioni di cui fanno parte, sono state definite “estremamente aggressive…senza precedenti”, dal Presidente del Working Party Articolo 29, Jacob Kohnstamm, ma hanno anche avuto i loro effetti sul processo di riforma, visto che le Autorità europee si sono lasciate convincere a eliminare dalla direttiva una clausola – ribattezzata ‘anti-FISA’ – che avrebbe limitato la capacità dell’intelligence statunitense di spiare i cittadini europei.
A conferma del fatto che le web company americane sono campionesse nel ‘due persi due misure’: a casa loro, cioè, si ergono a paladini dei diritti dei consumatori contro le intrusioni dei governi, mentre in Europa hanno cercato, e ottenuto (col sostegno del loro governo), un annacquamento delle norme a tutela della riservatezza dei dati degli utenti.
Ufficialmente, com’è ovvio, i funzionari dell’amministrazione Usa negano che vi sia stata unità d’intenti con le aziende internet e i dirigenti di queste ultime hanno tutti allo stesso modo smentito che le pressioni esercitate sui legislatori europei per convincerli dei rischi legati a regole sulla privacy più stringenti, fossero in qualche modo legate alle attività di monitoraggio svelate al mondo da Edward Snowden. Il loro intento – dicono – era quello di far comprendere che le proposte della Commissione avrebbero potuto ostacolare l’innovazione e la crescita della digital economy.
Fatto sta che, mentre cinque anni fa non esisteva traccia di spese di lobbying da parte delle web company, dai dati emersi dal registro Ue risulta invece che nel 2012 – proprio in coincidenza col dibattito sulla direttiva ‘data protection’ – Google, Microsoft, Facebook, Yahoo, Apple ed eBay hanno ‘investito’ più di 10 milioni di euro in attività di lobbying, assumendo allo scopo ex parlamentari Ue ed ex funzionari delle Authority nazionali. La cifra, certo, sembra molto lontana dai 35 milioni di dollari che queste stesse aziende hanno speso per ‘influenzare’ i legislatori americani, ma – dicono alcuni osservatori – potrebbe essere anche molto inferiore alla realtà, visto che in Europa manca un rigoroso regime di trasparenza per questo tipo di attività.
Non tutti puntano il dito sugli sforzi ‘educativi’ delle web company: il Garante europeo della protezione dei dati Peter Hustinx – che ha espresso ufficialmente le sue riserve sulle proposte europee in materia di data protection – ha affermato che le web company americane hanno contribuito al dibattito con proposte meno prescrittive e più incentrate su un approccio ‘risk based’.
Ora però che lo scandalo Prism è venuto fuori in tutta la sua dirompenza, gli sforzi delle web company rischiano di cadere nel vuoto: sono molti gli europarlamentari che stanno facendo marcia indietro dopo essersi inizialmente schierati a favore della cancellazione della clausola anti-FISA, nel timore che questo possa nuocergli alle prossime elezioni.