Europa
La tecnologia evolve a un ritmo così veloce che quello che era impensabile appena un paio d’anni fa, oggi è già diventato routine. E così, immaginarne gli effetti sulle nostre vite da qui a un altro paio d’anni diventa per noi molto arduo. Per noi. Ma non per quelle aziende che raccolgono i nostri dati, le tracce digitali che ci lasciamo dietro quotidianamente, e – attraverso nuovi sistemi di analisi e intelligenza artificiale – realizzano prodotti e servizi su misura dei nostri gusti e pretendono di sapere già quello che vorremo domani. E nemmeno per quei governi che, con la scusa ufficiale di combattere il terrorismo, raccolgono e analizzano queste informazioni in maniera massiccia e indiscriminata, in spregio di quello che in Europa è un diritto fondamentale.
Lo scoppio dello scandalo Prism ha tolto il velo a un abuso che non può lasciare indifferenti: nessuno di noi, anche chi non ha nulla da nascondere, può e deve accettare di sacrificare in toti la riservatezza delle proprie comunicazioni in cambio di una parvenza di sicurezza tutta da dimostrare.
Prima delle rivelazioni su quanto estensiva sia l’attività di controllo ad opera del Governo Usa, molti di noi magari sapevano dell’esistenza della NSA (la National Security Agency), ma non avevano idea che passasse il suo tempo anche spiare il nostro profilo Facebook o le nostre chat su Skype.
E non immaginavano neanche, ad esempio, che le Autorità europee – in apparenza strenue sostenitrici della difesa della nostra privacy, in feroce opposizione con le web company che spesso e volentieri ne hanno abusato – si sono lasciate convincere dalle lobby americane a eliminare dalla direttiva sulla protezione dei dati una clausola – ribattezzata anti-FISA – che avrebbe limitato la capacità dell’intelligence statunitense di spiare i cittadini europei.
Il Foreign Intelligence Surveillance Act (FISA) è la legge che autorizza il governo americano a intercettare le chiamate internazionali e le email e, secondo alcuni documenti ottenuti dal Financial Times, l’articolo 42 avrebbe annullato qualsiasi richiesta mirante alla consegna di dati di cittadini Ue.
La giustificazione dei Commissari europei sa molto di resa: la misura, dicono, avrebbe avuto impatto quasi nullo, visto che la gran parte dei server dove sono stipati i dati, anche quelli dei cittadini europei, si trovano negli Usa. Inutile, quindi, inimicarsi un alleato così importante.
Eppure, come sostenuto anche dal Commissario Ue alla Giustizia, Viviane Reding, la misura avrebbe impedito il tipo di sorveglianza emersa con lo scandalo Prism e – come riferito invece dai sostenitori della clausola – avrebbe dato alle autorità europee maggiore capacità di opporsi ai tentativi degli Usa di introdursi nelle comunicazioni dei cittadini europei.
Secondo quanto riferito da un alto funzionario europeo al quotidiano britannico, chi si è opposto alla clausola anti-FISA non voleva apporre nuove complicazioni ai negoziati commerciali transatlantici e sarebbe stato ‘convinto’ dalle visite ripetute di diversi alti funzionari Usa, incluso Cameron Kerry (fratello del Segretario di Stato John Kerry) e dalle pressioni del Segretario per la Sicurezza Interna, Janet Napolitano.
Allo stesso tempo, anche le web company americane che hanno collaborato con l’amministrazione americana nel tentativo di annacquare le norme Ue sulla protezione dei dati, temevano l’articolo 42, che li avrebbe posti tra due fuochi: il Governo Usa a caccia di dati e le leggi Ue a vietarne l’accesso.
“Per noi sarebbe stato un incubo”, riferisce il rappresentante di una web company.
Per l’ambasciatore Usa William Kennard le pressioni Usa erano invece volte semplicemente a creare sistemi di protezione della privacy ‘interoperabili’ in grado di proteggere i cittadini Usa da ‘minacce criminali transnazionali’.
E c’è ora chi teme che il Parlamento europeo possa reintrodurre l’articolo 42 nel tentativo di guadagnare credibilità dopo queste rivelazioni.