Italia
L’Italia non è stata in grado di rispondere “agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi venticinque anni” e questo aggiustamento così a lungo rinviato ha avuto serie ripercussioni sulle “modalità di accumulazione del capitale materiale e immateriale, la specializzazione e l’organizzazione produttiva, il sistema di istruzione, le competenze, i percorsi occupazionali, le caratteristiche del modello di welfare e la distribuzione dei redditi, le rendite incompatibili con il nuovo contesto competitivo, il funzionamento dell’amministrazione pubblica”.
Non fa sconti a nessuno il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, che nella Relazione annuale dell’Istituto richiama alle proprie responsabilità la politica e chiede la risposta della società e di tutte le forze produttive.
“L’Italia – ha detto – ha bisogno di condizioni favorevoli all’attività d’impresa, alla riallocazione dei fattori produttivi” che consentano di recuperare il ritardo accumulato anche a causa di un quadro regolamentare ridondante, della complessità e costi degli adempimenti amministrativi “che vanno ridotti drasticamente”, di comportamenti corruttivi diffusi da sradicare, di una insufficiente protezione dalla criminalità.
Alle imprese, Visco chiede “uno sforzo eccezionale”, per garantire “il successo della trasformazione, investendo risorse proprie, aprendosi alle opportunità di crescita, adeguando la struttura societaria e i modelli organizzativi, puntando sull’innovazione, sulla capacità di essere presenti sui mercati più dinamici”.
Non tutte le imprese italiane hanno infatti accettato fino in fondo la sfida dell’innovazione, preferendo invocare il sostegno pubblico.
“La capacità di innovare i prodotti e i processi, di esportare sui mercati emergenti, di internazionalizzare l’attività, anche guidando o partecipando a catene produttive globali, demarca il confine tra le imprese che continuano a espandere il fatturato e il valore aggiunto e quelle che, invece, faticano a rimanere sul mercato. La crisi ha accentuato questo divario, reso stridente l’inadeguatezza di una parte del sistema produttivo”, ha aggiunto, sottolineando la necessità di assicurare “sin d’ora le condizioni per favorire la nascita e la crescita di imprese nuove, generare nuove opportunità di impiego”.
Per far fronte a questo divario, che penalizza il Paese e soprattutto i più giovani, scuola e università, ha aggiunto Visco, “dovranno sostenere questo processo garantendo un’istruzione adeguata per qualità e quantità, mirando con decisione ad accrescere i livelli di apprendimento e a sviluppare nuove competenze”.
Nella relazione si evidenzia quindi come l’Italia sia notevolmente indietro rispetto ai principali paesi avanzati in quanto a intensità dell’attività innovativa, specialmente nel settore privato: “La spesa in ricerca e sviluppo…è più bassa e lontana dall’obiettivo del 3% in rapporto al PIL fissato dalla Commissione europea nella strategia Europa 2020. Il divario è ancora più ampio nella propensione a realizzare brevetti”.
Ma a cosa si deve questo gap? Secondo Visco, a più fattori. Primo fra tutti, “la piccola dimensione aziendale e una gestione largamente fondata su un management di derivazione familiare”, una minor diffusione del capitale azionario, ma anche un contesto istituzionale e regolamentare che frena “l’allocazione delle risorse verso le imprese più innovative”.
Pesa inoltre la scarsa collaborazione tra il sistema di ricerca pubblica e il settore privato.
Secondo i dati presentati da Visco, quindi, il 40% circa della spesa in R&S è effettuata dal settore pubblico ma gli incentivi pubblici alla R&S e all’innovazione delle imprese hanno conseguito risultati modesti.
“La loro efficacia – spiega – ha risentito negativamente della frammentazione
degli interventi, dell’instabilità delle norme e dell’incertezza sui tempi di erogazione”.
A ciò si aggiunge che l’incidenza della spesa in R&S sul prodotto in Italia è inferiore a quella dei principali paesi europei: “nel 2011 era dell’1,3% rispetto all’1,9% della media dell’Unione europea e al 2,8 della Germania. La componente privata è particolarmente bassa nel confronto internazionale (0,7% rispetto all’1,2% della UE e all’1,9% della Germania), mentre minore è il divario per quella pubblica (0,5 per cento rispetto allo 0,7 dell’Unione e allo 0,9 della Germania).
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