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Spacciarsi in chat per un’altra persona è reato

Italia


Spacciarsi per un’altra persona in chat è reato. Così ha deciso la Cassazione (sentenza 18826) che ha confermato la condanna di una donna che aveva divulgato online il numero di telefonino della sua ex datrice di lavoro, con cui era in causa.

Il desiderio di vendetta aveva spinto la donna a creare, in una chat d’incontri erotici, un profilo usando come nicknames con le iniziali dell’ex capo, completando il tutto anche col numero di cellulare.

La vittima s’è trovata all’improvviso bersaglio di sms, mms con foto porno e telefonate di persone che le chiedevano appuntamenti hard o le rivolgevano insulti a carattere sessuale.

 

L’imputata era stata ritenuta responsabile dalla Corte d’appello di Trieste dei reati di ingiuria e sostituzione di persona, mentre era stato dichiarato prescritto il reato di molestie. La quinta sezione penale della Cassazione ha rigettato il ricorso della donna, ricordando che “integra il reato di sostituzione di persona la condotta di colui che crei e utilizzi un account di posta elettronica, attribuendosi falsamente le generalità di un diverso soggetto, inducendo in errore gli utenti della rete Internet, nei confronti dei quali le false generalità siano declinate e con il fine di arrecare danno al soggetto le cui generalità siano state abusivamente spese“.

 

Nel caso in esame, si legge nella sentenza, “l’imputata non ha creato un account attribuendosi falsamente le generalità di un altro soggetto, ma ha inserito in una chat di incontri personali i dati identificativi” della ex datrice di lavoro “a insaputa di quest’ultima”.

Invero, spiegano ancora i giudici, “non può non rilevarsi al riguardo che il reato di sostituzione di persona ricorre non solo quando si sostituisce illegittimamente la propria all’altrui persona, ma anche quando si attribuisce ad altri un falso nome o un falso stato ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, dovendosi intendere per ‘nome’ non solo il nome di battesimo ma anche tutti i contrassegni di identità”.

 

In tali contrassegni, chiarisce la Corte, “vanno ricompresi quelli, come i cosiddetti ‘nicknames’ (soprannomi) utilizzati nelle comunicazioni via internet che attribuiscono una identità sicuramente virtuale, in quanto destinata a valere nello spazio telematico del web, la quale tuttavia non per questo è priva di una dimensione concreta, non essendo revocabile in dubbio che proprio attraverso di essi possono avvenire comunicazioni in rete idonee a produrre effetti reali nella sfera giuridica altrui, cioè di coloro ai quali il ‘nickname’ è attribuito”.

 

Il ‘nickname’, nel caso in cui “non vi siano dubbi sulla sua riconducibilità ad una persona fisica“, assume infatti “lo stesso valore – ha concluso la Cassazione – dello pseudonimo ovvero di un nome di fantasia, la cui attribuzione, a sè o ad altri, integra pacificamente il delitto di cui all’articolo 494 cp.”, ovvero il reato di sostituzione di persona.

 

La Cassazione amplia così la portata dell’articolo 494, adeguandolo ai cambiamenti imposti dalla tecnologia.

In passato (sentenza 12479/2011) la Suprema Corte aveva chiarito che la sostituzione di persona scattava con la creazione di un account di posta elettronica, con il quale ci si “appropriava” delle generalità di un terzo, inducendo in errore gli internauti e danneggiando la persona a cui si rubava l’identità.

Un precedente al quale s’era aggrappata l’imputata, visto che s’era ‘limitata’ solo a inserire le iniziali e il numero di cellulare dell’ex datrice di lavoro, ma inutilmente vista la condanna.

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