Italia
Ha deciso di scendere direttamente in campo la FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana), presieduta da Enzo Mazza, per colpire chi fa pubblicità sui siti che favoriscono la pirateria. “Stiamo valutando possibili iniziative legali relativamente al concorso nel reato“, ha annunciato Mazza, parlando di un’iniziativa pilota che la FIMI sta predisponendo per colpire chi compra gli spazi e chi si occupa dell’advertising online. Continuano, purtroppo, a proliferare queste piattaforme transfrontaliere, con server a volte ubicati all’estero, che fanno lauti guadagni attraverso i banner pubblicitari, sfruttando i servizi illegali.
Più volte Mazza ha espresso la propria preoccupazione, sostenendo che “Andrebbero sanzionati anche gli investitori pubblicitari che sostengono le attività illegali”.
Key4biz ha aperto il confronto su questo nuovo, quanto pericoloso fenomeno, che si sta sviluppando intorno alle piattaforme di downloading pirata che sempre più spesso raccolgono pubblicità da grossi e noti brand, da Levi’s all’italiana PagineGialle.it. Quest’ultima dopo la nostra segnalazione su un loro banner che compariva sul sito di pirateria mp3hulk.com, ha provveduto all’immediata rimozione (Leggi Articolo Key4biz).
L’industria italiana ha deciso di agire, anche perché i dati Nielsen ci dicono che un utente su quattro scarica musica illegalmente, nonostante le recenti conclusioni del Report ‘Digital Music Consumption on the Internet: Evidence from Clickstream Data‘, pubblicato dal Joint Research Centre della Commissione Ue, secondo il quale la pirateria non avrebbe conseguenze sulle vendite dell’industria discografica.
I dati dicono ben altro, sono ben 7,8 milioni gli utenti che praticano pirateria. E anche se è confortante che la musica digitale legale sia cresciuta del 15% nell’ultimo anno, nella Relazione finale presentata lo scorso febbraio dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla contraffazione si parla di danni per 600 milioni di euro in termini di mancati incassi annuali per la musica (stime SIAE, aggiornata a luglio 2010).
L’Italia si piazza tra l’altro ai primi posti per la fruizione illegale mentre ancora si attende il Regolamento antipirateria dell’Agcom che come aveva già annunciato il Commissario Maurizio Dècina, l’Autorità riprenderà “presto in mano, sapendo che la pirateria deprime il mercato legale, mette in ginocchio interi comparti merceologici, e richiede reazioni efficaci e tempestive” (Leggi Articolo Key4biz).
Comprensibile, quindi, che abbia sollevato un polverone il Report JRC, tanto sa spingere l’IFPI (International Federation of the Phonographic Industry), che aveva già commentato il Rapporto appena pubblicato (Leggi Articolo Key4biz) a prendere una posizione questa volta ufficiale, inviando una nota diramata in Italia dalla FIMI.
Il passaggio controverso del Report di JRC sta in queste righe: “Anche se c’è violazione del diritto d’autore – dicono gli autori – ci sono poche possibilità che le entrate della musica digitale possano soffrirne (…) da questo punto di vista, le nostre conclusioni suggeriscono che la pirateria non deve essere considerato come un grande problema per i titolari dei diritti del mondo dematerializzato.”
IFPI indica i numerosi e significanti errori emersi dallo Studio, in particolare evidenziando la mancanza di una metodologia accurata nella misurazione dei dati, con particolare riferimento alla capacità della pirateria di condizionare negativamente i profitti generati dai servizi digitali offerti dall’industria musicale.
Spotify, il servizio di audio streaming che raccoglie più di 5 milioni di utenti in tutto il mondo, conferma la debolezza dei risultati affermati attraverso il rapporto JRC (Leggi Articolo Key4biz).
A riguardo Will Page, Director of economics di Spotify, ha spiegato: “Digital Music Consumption on the Internet: Evidence from Clickstream Data’ presenta numerosi difetti. La stretta definizione del mercato, individuate dagli autori è sconcertante e profondamente fuorviante. In particolare, l’omissione di riferimenti ai servizi di streaming online dimostra l’incapacità di apprezzare e misurare l’assemblaggio completo del mercato digitale”.
“Ne risulta – conclude il manager di Spotify – che gli autori non conoscano in maniera appropriata la competizione scorretta che la pirateria determina nei confronti dei servizi di streaming legali. Inoltre, il Report non analizza correttamente il modo in cui i consumatori possano migrare da servizi illegali a servizi legali come ad esempio Spotify”.
Secondo IFPI, le conclusioni evidenziate dallo studio JRC risultano, in realtà, “errate e fuorvianti” per numerosi elementi.
Intanto i dati si basano su una visione limitata del mercato (solo download, escludendo di fatto i servizi streaming e le altre forme di distribuzione) e sono contraddetti da moltissime ricerche che confermano l’impatto negativo della pirateria sul commercio di musica legale.
E ancora, lo Studio considera il numero dei click ai siti che secondo JRC contengono musica, ma non vengono misurate o analizzate le transazioni musicali e le conclusioni si basano, quindi, su approssimazioni e stime dell’attività musicale.
A contraddire, inoltre, il Rapporto di JRC, i risultati di diversi studi che hanno misurato l’impatto della legge francese contro la pirateria, Hadopi, sulle vendite di musica che dalla sua entrata in vigore hanno registrato un aumento del 20-25% rispetto agli altri Paesi considerati nel campione JRC. I generi musicali più venduti sono stati proprio quelli che subivano maggiormente la pirateria.
Altro aspetto discutibile, l’applicazione della Direttiva IPRED ha portato nel 2009 a un calo della pirateria e a una crescita del 27% degli acquisti di CD. Anche la recente chiusura di Megaupload ha determinato un incremento delle vendite di film online.
Altro errore dello Studio JRC, evidenzia infine l’IFPI, è la conclusione che la pirateria non danneggia i ricavi digitali, perché si basa su una visione ristretta di questi, considerando solo i download, ma questi ultimi, in realtà, sono solo una fonte dei ricavi del mercato della musica digitale. La pubblicità nei video streaming o gli abbonamenti rappresentano, per esempio, già il 30% delle revenue.