Europa
Il pressing degli Usa, ma anche di diversi Stati Ue, sembra sortirà gli effetti desiderati in termini di ‘alleggerimento’ della proposta di direttiva sulla privacy, che sarà votata dal Parlamento europeo entro la fine di aprile.
Nove Stati membri, tra cui Germania, Regno Unito, Svezia e Belgio, si sarebbero infatti opposti a diverse delle misure proposte dalla Commissione che potrebbero sfociare, spiega il Financial Times, “in pesanti oneri sulle aziende”, proprio nel momento in cui i Paesi europei sperano che il business digitale possa contribuire a risollevare l’economia.
In una nota della presidenza irlandese, riportata sempre dal quotidiano della City, viene specificato “diversi Stati membri hanno espresso il loro disaccordo circa il livello di prescrittività di una serie di obblighi proposti nel progetto di regolamento”.
Un’apertura che farà sicuramente piacere al Governo Usa e alle web company americane, che hanno pesantemente pressato i parlamentari europei allo scopo di alleggerire la portata delle nuove norme, che includono anche la possibilità di multare le aziende fino a un massimo del 2% del fatturato (Leggi articolo Key4biz).
La risoluzione di questa controversia, nota inoltre il FT, potrebbe essere un tassello importante per spianare la strada a un nuovo accordo commerciale transatlantico.
La riforma, che aggiorna e modernizza i principi sanciti dalla direttiva del 1995 sulla protezione dei dati personali, si è resa necessaria soprattutto alla luce della crescente popolarità di siti che utilizzano e spesso abusano dei dati personali degli utenti (Leggi articolo Key4biz).
Intervenendo alla seconda conferenza sul Cloud Computing a Bruxelles, il Commissario Ue alla Giustizia, Viviane Reding ha sottolineato che “il mondo dal 1995 è profondamente cambiato: oggi viviamo in un mondo in cui le possibilità di comunicazione sono immense. Siamo in grado di aggiornare i nostri amici e parenti di ogni nostro movimento e in tempo reale. I motori di ricerca ci permettono di accedere a una mole enorme di informazioni e possiamo affidare i nostri dati privati a un provider di servizi cloud, senza mai doverci preoccupare dello spazio di archiviazione”.
Questi cambiamenti hanno enormi implicazioni per le nostre economie: nel 2011, McKinsey ha previsto un potenziale surplus di 120 miliardi di euro in Europa entro il 2020. Secondo Boston Consulting Group, il valore creato dalle nostre identità digitali solo in Europa si attesterà a 1.000 miliardi di euro entro il 2020, ossia circa l’8% del PIL combinato della Ue-27.
Ma per sbloccare il potenziale di crescita c’è bisogno del mercato unico e nel mercato unico bisogna garantire il massimo rispetto dei diritti dei cittadini e regole uguali per tutti, anche per le aziende che non hanno sede nella Ue, per conciliare tutela della privacy e crescita digitale, diritti degli individui ed esigenze delle imprese.
“Le aziende non europee, quando offrono servizi ai consumatori europei, devono rispettare le stesse regole ed aderire agli stessi livelli di protezione dei dati personali. Il ragionamento è semplice: se le imprese al di fuori dell’Europa vogliono approfittare del mercato europeo, con i suoi 500 milioni di clienti potenziali poi devono giocare secondo le regole europee. È una questione di concorrenza leale. Un principio apprezzato dappertutto. Ecco perché, due settimane fa, principali operatori di telecomunicazioni della Ue hanno annunciato il loro sostegno alla riforma”, ha affermato la Reding, sottolineando che fin dal principio delle negoziazioni, coloro i quali volevano mantenere un alto livello di protezione in Europa hanno riconosciuto la necessità di accelerare, quelli che volevano bassi livelli di protezione hanno tentato di frenare. (leggi il testo integrale dell’intervento).
La notizia di una possibile apertura delle istituzioni europee alle richieste delle aziende e del governo Usa arriva tra l’altro in concomitanza con la denuncia di Google secondo cui diverse agenzie di Washington – tra cui l’FBI – hanno sorvegliato migliaia di account internet dal 2009 al 2011 per prevenire eventuali attività terroristiche, sulla base dei dettami del Patriot Act, adottato in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001.
Dal 2009 al 2011, la società rivela di aver ricevuto dal governo un numero tra zero e 999 richieste che riguardavano ogni anno tra 1.000 e 1.900 account, tranne nel 2010, quando le richieste erano riferita a un numero tra 2.000 e 2.900 account.
Google sostiene di non poter rendere noti dati più precisi perchè secondo il governo queste informazioni potrebbero compromettere indagini in corso.
Le rivelazioni, secondo la Electronic Frontier Foundation (EFF), anche se parziali, rappresentano un’importante vittoria per la trasparenza perchè fanno luce sulle sistematiche attività di sorveglianza del Governo sulle attività degli utenti internet.