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Da lunedì la notizia che Google ha rimosso i filtri anticensura, cedendo al governo cinese, ha scatenato la polemica dentro e fuori da internet. Proprio il gruppo di Mountain View, da sempre convinto assertore di tutte le campagne per il Free and Open Web, capitola davanti ai censori di Pechino? Qualche osservatore cinese parla di ragioni economiche. Effettivamente in questo Paese Google non è leader del mercato e fattura relativamente poco rispetto al resto del mondo.
Si vocifera, infatti, di un accordo tra la compagnia americana e Qihoo 360 Technology, società attiva nell’eSecurity che gestisce anche un motore di ricerca e possiede il più usato browser cinese. L’obiettivo sarebbe di affossare Baidu, attaccando il suo 74% sul mercato della web search.
Questa potrebbe essere un’ipotesi, ma non si può fare a meno di collegare quanto successo in Cina con la visita, sempre in questi giorni, del presidente esecutivo di Google, Eric Schmidt, in Corea del Nord.
Che cosa è andato a fare, il ‘grande difensore della libertà di internet’ nel dittatura comunista più crudele del mondo?
Il manager è ufficialmente lì per ‘ragioni umanitarie’, la liberazione di un cittadino americano arrestato a Pyongyang il mese scorso. Un viaggio privato, quindi, anche se l’agenzia ufficiale KCNA annunciava lunedì ‘L’arrivo della delegazione USA di Google Corp’.
Schmidt è in compagnia di Bill Richardson, ex governatore del New Mexico ed ex Ministro di Bill Clinton, ma che è anche colui che in via ufficiosa tiene da tempo ormai le comunicazioni tra USA e Corea del Nord.
Cosa c’è dietro? Schmidt simbolizza per il regime di Pyongyang ciò contro cui si batte da decenni, la libera informazione o perlomeno ciò che Google ha sempre detto di voler rappresentare e su cui nel tempo sono cresciuti i legittimi dubbi di tanti.
Interessi economici? Il gruppo americano intende rafforzarsi su questi mercati e quindi dismette gli abiti da paladino anticensura?
Anche se la Corea del Nord è il paese più ‘isolato’ del mondo, non è un deserto in materia di ICT.
Dal 2002 esiste una rete intranet, alcune agenzia governative hanno un loro sito web e i cellulari sono stati introdotti a partire dal 2008, attraverso una joint-venture con l’azienda egiziana Orascom.
Il progresso economico va bene, purché non intralci il regime comunista, che si tramanda da padre in figlio da almeno tre generazioni. I milioni di abbonati alla telefonia mobile possono chiamare all’interno del Paese, assolutamente non fuori dalle frontiere.
L’intranet, già accessibile a pochi, è tagliata fuori dal mondo e non pubblica che informazioni approvate dal regime. L’internet vero, quello che fa ormai parte della vita di quasi ogni occidentale, è riservata una ristrettissima cerchia di persone, una super-élite di massimo un migliaio di persone su 24 milioni di abitanti. Per il 95% della popolazione non c’è cellulare, né intranet.
Analisti come Scott Bruce, esperto delle questioni riguardanti questo Paese, in un Rapporto ha sottolineato che il 5% delle persone che hanno accesso agli strumenti forniti dalle moderne tecnologie rappresentano uno sviluppo significativo e senza precedenti. Il regime l’ha capito.
“La Corea del Nord – scrive Bruce – ha conosciuto un’evoluzione fondamentale: questo Stato che limitava l’accesso alle tecnologie dell’informazione per tutelare il regime è divenuto un Paese pronto a servirsene come strumento, per lo meno in seno alla classe privilegiata, per sostenere la crescita nazionale”.
Questo dovrebbe spingere gli USA a incoraggiare lo sviluppo in questo settore, “un’operazione che ha il potenziale di trasformare questo Stato sul lungo termine”.
Sulla visita di Schmidt e Richardson in Corea del Nord, al momento Washington non ha fatto molti commenti, ma ha dichiarato che il momento non era ideale, visto che meno di un mese fa a Pyongyang è stato lanciato un razzo-missile ed è noto che il governo USA teme la potenza nucleare di questo Paese e non vorrebbe missili puntati sul suo territorio.