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Un’altra Europa è possibile: tributo a Massimo Fichera

Italia


Come qualcuno ricorderà la notizia della scomparsa di Massimo Fichera – per la cui salute c’erano apprensioni da tempo – arrivò nel corso di un incontro a Roma convocato per ricordare, a un anno di distanza, Enrico Manca. Due persone diverse, che ebbero una lunga convergenza personale, politica e professionale; e un tratto in comune, l’intelligenza di non cercare rapporti solo con i propri simili.

 

Per questo varco ho avuto il privilegio dell’amicizia con entrambi. Scambiandoci ciò che generazioni confinanti, persone diverse ma affini, accreditano sia la possibilità di apprendere sempre e, in fin dei conti, l’elogio della vita finché essa è mossa da questa superba umiltà.

 

Il giorno stesso della notizia ho scritto una nota biografica di Massimo, di congedo, destinata a Mondoperaio perché supponevo che i media non avrebbero fatto troppi sforzi di indagine sulla sua personalità non più agli onori della cronaca. E perché almeno l’ultima voce ancora autorevole di una famiglia politica segnalasse un argomentato rispetto per la sua storia.

 

Lì vi è tutto quello che i convenuti qui oggi in sostanza sanno. Formazione, percorso di un organizzatore culturale a cui piaceva il giornalismo e la politica ma che avrebbe trovato il suo specifico in un territorio coinvolto ma diverso da queste due mitologie professionali del ‘900 perché in lui prevaleva una percezione del futuro in cui economia, impresa, produzione, organizzazione, tecnologia dovevano giocare più ruolo di quello che i giornalisti e i politici concedono al loro mestiere. Poi le tre essenziali stagioni della sua vita: la Fondazione Olivetti, la Rai (prima e dopo la riforma, con la costituzione di Raidue), la post-Rai e la fondazione di una televisione europea, che è stata Euronews. In occasione di questa giornata ho scritto una cartella aggiuntiva a quella nota. La presento ora alla vostra attenzione per proporvi brevissime chiavi di lettura che danno qualche interpretazione a una pur ricca e vivace biografia.

 

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Prima, consentitemi un frammento di aneddotica riguardante Eurovisioni, sodalizio a cui Fichera ha annesso rilievo dedicandovi tempo, che è la ragione anche di questo tributo. Nella prima parte degli anni ’90 il board di Eurovisioni riequilibrò la presidenza, elegante e preziosa, di un autore, polacco anche se molto connesso all’Italia, cattolico, come Kristof Zanussi, con quella di chi era all’epoca forse più connesso con il quadro degli apparati, istituzionali e di impresa, delle comunicazioni. E fui scelto io per un triennio come presidente. Al termine – nel ’94 – si riunì il board a Villa Medici. E Jean Marie Drot, direttore dell’Accademia, non impolitico ma non tenuto a pesare tutte le alchimie italiane, propose con enfasi il nome di Luciana Castellina. Nome autorevole e reduce da una reputatissima esperienza di presidente della Commissione Cultura del Parlamento europeo. In Italia non propriamente una moderata. A qualcuno passò per la mente che sarebbe stato il caso di fare qualche verifica, se si voleva assicurare a quel nome ancoraggio. Ma i più erano pronti a battere le mani. Toccò a Fichera interrompere l’emozione con un annuncio di responsabilità. Disse: “Ma vogliamo renderci conto di cosa significa una presidenza Castellina nel bel mezzo della rappresentazione del sistema televisivo oggi in Italia e in Europa! Facciamo qualche approfondimento e poi decidiamo“. Così si fece, per dare costrutto politico a ciò che diversamente sarebbe stato appeso solo al filo delle amicizie. Alla fine la presidenza Castellina fu più forte, perché avviata con più requisiti. E fu, come sapevamo, la migliore presidenza che Eurovisioni ha mai avuto.

 

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Prima annotazione

 

I tre mesi che ci separano dalla scomparsa di Massimo Fichera non hanno cambiato di una iota lo stupore per l’assenza, nel giorno del congedo al Verano, dei vertici della Rai, dei politici più significativi, dei “poteri” comunitari, e, insomma, di tanti altri ambienti che hanno fatto, in altri tempi, i conti con ciò che realmente Fichera ha rappresentato per anni nel sistema televisivo e, più in generale, nella produzione culturale: cultura di progetto, innovazione, spalle larghe nella difesa della squadra, professionalità audace. Soprattutto aver impersonato una variante di rilievo della figura novecentesca dell’intellettuale così come la scuola di sua prevalente formazione – la Fondazione Olivetti – ha reso possibile nei confronti anche di qualcun altro. Non intellettuale di prodotto, che resta la vocazione per eccellenza delle “belle bandiere”, dunque progettista d’opera, in sostanza autore; ma intellettuale di processo, dunque progettista di percorsi organizzativi e delle condizioni per assicurare la libertà della cultura e, quindi, lo spazio vitale per gli autori.

 

Non si dica che la distinzione è datata, che la riproduzione meccanica dell’opera d’arte ha modificato da tempo il divario tra creativi e produttori. L’idea corrente sugli intellettuali resta ancora prevalentemente quella. L’idea corrente sui produttori si è nel frattempo persa per strada e soprattutto marginalizzata nelle grandi fabbriche della cultura, trasferendo i grandi spiriti di chi ha tenuto larga la partita sperimentale e produttiva in piccole boutiques, per lo più a misura della loro stessa persona, oppure in fondazioni di ricerca o ancora sparsi in una convegnistica ironica su tempora et mores.

 

Ed è proprio perché le grandi fabbriche della cultura non sono più le stesse, che i loro vertici e i loro committenti d’oggi mancano ad appuntamenti con chi può produrre loro l’inutile brezza del sia pur vago, vaghissimo, senso di colpa.

 

In questa trasformazione epocale sta anche la Rai. Sintesi di sei sistemi industriali della cultura – quello della scrittura, quello dell’immagine, quello della musica, quello dello spettacolo, quello della comunicazione, quello dell’informazione – in cui oggi agisce trasversalmente (Fichera ci aveva lavorato intuitivamente tra i primi) un diverso modo di concepire “culturalmente” il nesso tra tecnologia della produzione e della fruizione. Quindi una volta in condizione di concepire le carriere interne o le immissioni importanti (sempre negli spazi non contaminati dalla sindrome di Caligola – quello del cavallo nominato senatore – che a proposito della Rai ha colpito generazioni di politici) il nodo del management è sempre stato quello di capire come incrociare gli specifici, almeno due, almeno tre.

 

Un direttore generale dovrebbe dimostrare di saperli incrociare quasi tutti. Fichera, che aveva senso dell’umorismo, non avrebbe mai mostrato i muscoli ma stava su molti carrefour con intelligenza.

 

Peccato che il Male non ci faccia più correre in edicola, perché un paginone con l’elenco di alti dirigenti e amministratori degli ultimi tempi al di fuori sostanzialmente da tutti quei campi di competenza (non dico tutti i dirigenti, si intende) sarebbe parte di diritto della satira del nostro tempo.

 

Seconda annotazione

 

Nel giudicare la qualità dell’intellettuale-manager c’è poi una seconda caratteristica che – pensando, anche in specifico, alle vicende che hanno fatto notizia a proposito di Massimo Fichera – va segnalata.

 

Ed è quella di un rapporto audace ma non irresponsabile con la malattia prevalente del management: l’auto-censura. L’auto-censura è il senso del limite nei confronti del sistema di potere interno che non rende possibile una dialettica oltre i confini che si dicono essere tracciati.

 

La storia, si sa, procede per dettagli. E soprattutto procede per piccoli scavalcamenti di quei “confini che si dicono tracciati” realizzati da tanti dirigenti “responsabilissimi” e proprio per questo capaci di misurare giorno per giorno la tollerabilità del sistema a sperimentazioni di coraggio.

 

Nello specifico Raidue, dopo la riforma, aveva questo carattere editoriale, non scritto ma evidente nella sua necessità di conquistarsi un pubblico che avrebbe dovuto avere ragioni dimostrate per “tradire” o comunque per “non scegliere” il vecchio canale incombente che era stato per anni la casa di tutti.

 

Non tutti coloro che vengono messi a capo di un compito così delicato sanno fare in equilibrio gli interessi generali dell’azienda (e quindi di un’utenza sociale connessa ad un servizio pubblico) e quelli legittimamente faziosi della propria struttura aziendale. Il punto che rende diversi i manager dai faziosi di professione è proprio quello di regolare il rapporto con le autocensure secondo parametri non ideologici ma evolutivi. Capire il tempo e capire se si sta in sintonia con dinamiche profonde del cambiamento in atto. Per questo non serve solo un manager. Serve un manager-intellettuale. E all’epoca serviva che fosse un po’ smarcato dalle maggiori comunità ideologiche che producevano intellettuali, quella cattolica e quella comunista. L’accento polemico con una modalità di trattamento degli incarichi in Rai e in molte realtà (aziendali o istituzionali) legate alla comunicazione mi ha fatto dire – il giorno in cui proprio ad un convegno di Isimm sopraggiunse la notizia della scomparsa di Massimo Fichera – che probabilmente Fichera non avrebbe apprezzato la deriva dei comportamenti della politica a proposito della Rai: prima nell’arroganza a volte di nomine alla Caligola, poi, per mondarsi, nell’ipocrisia di nomine prive di quel requisito sottile e decisivo per un manager pubblico della cultura.

 

Terza annotazione

 

La terza e ultima nota che sento di aggiungere al prolungamento del ricordo – dai tratti di una biografia ai tratti di una lezione civile – riguarda il rapporto con la politica.

 

In politica si vince e si perde. E’ evidente che anche le menti migliori hanno conosciuto la sintonia (e pur non sempre e non per tutti, il relativo premio); e la distonia (e pur non sempre e non per tutti, la relativa punizione). Ne abbiamo viste di tutti i colori negli anni della cosiddetta “seconda Repubblica”. Quella che ha trasformato partiti in ortaggi, fiori e urla da stadio e soprattutto quella che ha trasformato la natura dei “candidati” (a tutto, posti di governo e di amministrazione, ruoli aziendali e spazio-video, magistrature e persino ruoli diplomatici) dall’intrinseca competenza alla pura “condizione di immagine”, come è stato detto con brutta parola “il piacionismo”.

 

Qui – inutile essergli stato amico – Fichera avrebbe perso anche allora la sua battaglia se questa fosse stata la regola. Peggiorava per giunta la sua silhouette con scelte di moda che probabilmente erano rubricate nell’appartenenza a famiglie di matematici catanesi. Per fortuna la sua battaglia l’ha fatta, per un bel pezzo, con altre regole. E in quelle regole c’era anche una condizione di rapporto fiduciario che non si rinnovava facilmente.

 

Ho visto gli anni della sintonia e ho visto quelli della distonia. Ho visto occhi acuti brillare per la messa a punto di un’idea giusta al momento giusto che andava a segno; e quelli disincantati per non trovare più facilmente interlocuzione alle sue buone idee.

 

Tanti possono raccontare storie simili. Pochi si mettono nelle condizioni di non dover ammettere con se stessi una caduta di coerenza e di stile, solo per mantenere il privilegio di un ruolo che non si conquista per concorso. Qui si apre un vasto e doloroso capitolo che riguarda i socialisti riformisti coerenti con la storia di sinistra del loro partito, che non hanno accolto rifugi inadatti alla propria consuetudine e che non sono stati riconosciuti nella loro autonomia di storia e di pensiero da chi avrebbe tentato ogni seduzione personale nei loro confronti ma non compiendo il rito di quel plateale riconoscimento.

 

Ma – diciamo la verità – è una storia che, alla fine, nemmeno Massimo Fichera avrebbe più avuto voglia di sentire.

 

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Grazie a Key e ai figli di Massimo Fichera, Paolo e Daniele, per la loro presenza qui oggi. Grazie ai tanti intervenuti, tutti meritevoli di portare un frammento di testimonianza preziosa su questo nostro grande amico, anche se il programma ha dovuto necessariamente selezionare gli interventi attorno al tema delle esperienze generate dalla creatività progettuale e professionale di Fichera soprattutto rivolte all’Europa.

 

E grazie a Giuliano Amato che concluderà i nostri lavori. Sono certissimo del fatto che Massimo avrebbe molto apprezzato la scelta fatta per queste conclusioni.

 

 

Ascolta gli interventi:

 

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