Identità digitale, business da 330 mld d euro l’anno. Ecco quanto vale la nostra vita online

di Alessandra Talarico |

Secondo BCG, il valore creato dalle identità digitali in Europa sarà di 1 trilione di euro entro il 2020 (circa l’8% del PIL della Ue-27). Per le imprese e i governi, l’uso dei dati personali porta un beneficio economico di 330 mld di euro l’anno.

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Identià digitali

In una società sempre più tecnologica, tutte le informazioni personali che contribuiscono a formare la cosiddetta ‘identità digitale‘, sono diventate moneta sonante: un bene che non solo consente alle aziende del web di sapere tutto di noi, ma anche di farci una montagna di soldi, grazie alla possibilità di calibrare la pubblicità sui nostri gusti e di creare prodotti e servizi personalizzati.

Se ci riflettiamo bene, la scia di dati che ci lasciamo dietro navigando in rete è enorme, e ogni bit corrisponde a un aspetto della nostra personalità che, messo insieme agli altri, permette di avere un quadro di noi stessi e della nostra esistenza, non solo digitale, sorprendentemente completo.

Un tesoretto che si arricchisce via via di nuovi elementi e che ogni giorno diventa più prezioso per le aziende che questi dati li hanno stipati nei loro server: basti pensare a Google o Facebook, i servizi cui ogni giorno affidiamo le nostre ricerche e il nostro svago. Per loro, i nostri dati valgono oro perché è su di essi che si basano le inserzioni pubblicitarie che compaiono sui siti e, quindi, il grosso dei profitti.

Certo, anche noi ci guadagniamo: in cambio di queste prestazioni solo in apparenza gratuite, noi riceviamo servizi più veloci e meglio adatti alle nostre necessità (o almeno alle necessità che emergono dai dati della nostra navigazione) e anche se tutti ci lamentiamo del fatto che ‘non c’è più privacy’, ‘le telecamere sono dappertutto’, nessuno sembra esitare a postare sui social network le foto delle vacanze o dei propri figli o a cercare sui motori di ricerca informazioni anche molto delicate (su una malattia, una determinata preferenza sessuale e così via), fornendo a queste aziende un quadro sempre più accurato e rintracciabile delle nostre vite.

 

Ma quanto valgono, in soldoni, queste informazioni? La risposta non è semplice né banale. A quantificare il valore economico di questa mole di dati che va a comporre le nostre identità digitali ci ha provato Boston Consulting Group, che ha anche cercato di misurare il valore che i consumatori attribuiscono alle informazioni personali e le meccaniche che spingono a condividerle o meno in rete.

 

Secondo BCG, il valore creato dalle nostre identità digitali è davvero enorme: solo in Europa si parla di 1 trilione di euro entro il 2020, ossia circa l’8% del PIL combinato della Ue-27. Per le imprese e i governi, l’uso dei dati personali porta un beneficio economico di 330 miliardi di euro l’anno entro il 2020, unico settore in crescita in un’economia stagnante.

Per gli individui, il rapporto parla di un valore addirittura doppio – 670 miliardi – la maggior parte del quale legato a servizi come, appunto, Facebook e Google che vengono offerti gratuitamente proprio perché il centro del loro business sono i nostri dati e proprio perché gratuiti vengono molto apprezzati dai consumatori.

 

Spiega quindi BCG che l’identità digitale non rappresenta una miniera d’oro solo per le società web 2.0, ma per l’intera economia: i sei principali trend nell’applicazione dell’identità digitale – automazione dei processi, abilitazione degli utenti, personalizzazione, delivery avanzata, ricerca e sviluppo e monetizzazione secondaria – sono importanti per diversi settori. Il settore pubblico e quello sanitario ne saranno i principali beneficiari, traendone il 40% dei profitti.

 

Lo studio ha quindi cercato di quantificare il valore che gli utenti attribuiscono ai loro dati e quali sono i fattori che prendono in considerazione quando decidono di condividere le loro informazioni.

Solo tre su 10, rivela l’indagine, hanno una comprensione relativamente completa di quali settori raccolgano e usino i loro dati personali e solo il 10% ha preso almeno sei provvedimenti tra i più comuni a protezione della propria privacy.

 

La preoccupazione per la sicurezza dei dati, rivela quindi il rapporto, non necessariamente si traduce in una minore propensione a condividerli. Ma la consapevolezza sì: le persone con un maggiore livello di cognizione su come vengono usati i dati, chiedono anche maggiori garanzie prima di condividerli. Ecco perché anche le aziende che usano i dati personali come fonte di reddito devono comprendere l’importanza di comunicare chiaramente ai consumatori i benefici della condivisione, assumendosi la responsabilità di eventuali abusi e aumentando la trasparenza sull’utilizzo.

Un ultimo dato che emerge dallo studio riguarda la fiducia dei consumatori, che sono il 30% più propensi a condividere informazioni con le aziende di eCommerce, gli operatori via cavo e i produttori di automobili che cone le società web 2.0.

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