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Servizi audiovisivi e internet: quali le competenze delle regioni? Il valzer dell’Ordinamento della comunicazione

Italia


Di seguito un articolo a firma di Marco Orofino, Ricercatore di diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano, pubblicato su Medialaws, sito che propone analisi e approfondimenti tecnici su Leggi e Policy dei Media, offerti in una prospettiva comparativa, con il quale Key4biz ha avviato una collaborazione editoriale.

 

Il ddl costituzionale approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta dell’11 ottobre 2012 si propone di modificare il Titolo V della Parte II della Costituzione. Questo avviene a distanza di più di dieci anni dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 che, come noto, ha radicalmente trasformato l’impianto originario della Costituzione del 1948, nel senso di una valorizzazione costituzionale delle autonomie territoriali sulla scia dell’importante decentramento amministrativo realizzato nella medesima legislatura, con le cosiddetta leggi Bassanini.

 

La riforma costituzionale del 2001, pur recuperando in parte il progetto bipartisan approvato all’interno della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali ad hoc istituita (cd. Commissione D’Alema), fu approvata con una maggioranza assoluta raggiunta per pochi voti e, soprattutto, senza il concorso dell’allora minoranza di centro-destra. Nel successivo referendum confermativo, il corpo elettorale approvò a larghissima maggioranza la riforma.

 

Nella successiva legislatura il centro-destra divenuto maggioranza, si impegnò, come da programma elettorale, in un ampio tentativo di riforma costituzionale dell’intera seconda parte della Costituzionale. Il deliberato costituzionale, approvato dalle Camere a maggioranza assoluta, nuovamente incideva sui rapporti tra Stato e Regioni con la cd. devolution di nuove materie alla competenza esclusiva regionale. Per quanto riguarda i rapporti tra centro e periferia, il pendolo continuava, dunque, a oscillare verso le autonomie territoriali. Il referendum confermativo svoltosi il 25 e 26 giugno del 2006 bocciò, tuttavia, la nuova riforma mantenendo in vigore il Titolo V nella versione del 2001.

 

2. La riforma proposta dal Governo segna un nuovo spostamento del pendolo tra autonomia e unità. Questa volta la direzione appare nel senso di una limitazione dell’autonomia regionale e di un recupero di potere da parte dello Stato centrale. È la prima volta, nella lunga evoluzione del regionalismo italiano, che si assiste a un significativo passo indietro.

 

L’obiettivo primario perseguito, e dichiarato dal Governo, con la sua iniziativa è quello di ridurre le inefficienze del sistema dovute a sovrapposizione e intrecci di competenze. La riarticolazione delle competenze rappresenta, nelle intenzioni, lo strumento con cui mettere sotto controllo la spesa regionale. Gli interventi, estesi ora anche alle Regioni speciali, sono volti a garantire “l’unità giuridica ed economica della Repubblica”. Questa espressione è utilizzata in più passaggi del disegno di legge costituzionale tanto da esserne probabilmente il filo rosso.

 

3. Proprio con riferimento alla ripartizione delle competenze legislative, la proposta del Governo consiste in un’opera di ridefinizione dei cataloghi delle materie nonché nell’inserimento di una vera e propria clausola di supremazia dello Stato con riferimento alla potestà legislativa residuale delle Regioni. In questo breve intervento, l’attenzione è dedicata al proposto spostamento dell'”ordinamento della comunicazione” dal catalogo delle materie di competenza legislativa concorrente a quello delle materie di competenza esclusiva dello Stato.

 

Questa proposta non è naturalmente priva di conseguenze e pone, a prima lettura, due questioni su cui può essere utile iniziare a riflettere.

 

4. La prima questione riguarda la conferma di un’etichetta, “ordinamento della comunicazione” che già all’indomani dell’approvazione della legge costituzionale n. 3 del 2001 aveva sollevato più di un interrogativo.

 

La dottrina aveva, infatti, sottolineato una certa sua indeterminatezza di confini. Ci si era posti, infatti, il dubbio di quali ambiti materiali vi rientrassero. Taluni avevano offerto un’interpretazione più ampia, volta a ricomprendere le telecomunicazioni, la radiotelevisione, la stampa e le poste; altri avevano dato un’interpretazione più ristretta. In secondo luogo si era criticata la mancata distinzione, pure presente in alcune bozze preparatorie e poi sparita all’ultimo, tra un ambito nazionale e un ambito locale. Proprio la scelta di rimettere alla legislazione concorrente delle Regioni l’ordinamento della comunicazione tout court era apparso come frutto di un abbaglio, in quanto appariva difficilmente conciliabile con lo schema costituzionale della potestà legislativa concorrente articolato sulla distinzione (peraltro, non semplice) tra principio fondamentale/Stato e legislazione di dettaglio/Regioni.

 

Detto in modo più concreto ci si era domandati quale spazio di intervento avrebbero potuto realmente esercitare le Regioni nella legislazione in materia di radiotelevisione nazionale oppure nel settore delle comunicazioni elettroniche. Si sarebbero potute immaginare venti diverse legislazioni regionali, magari tra loro coordinate? Inoltre, la riforma avrebbe messo a rischio la legittimità dell’Autorità indipendente nazionale operante nel settore della comunicazione?

 

Alcuni avevano anche segnalato il contemporaneo processo in atto a livello europeo volto all’armonizzazione delle norme in materia di telecomunicazioni e la tensione esistente tra la scelta europea di attrarre la competenza a livello europeo e il disegno costituzionale volto a valorizzare il ruolo delle Regioni.

 

Molte di queste preoccupazioni sono state di fatto cancellate dal legislatore nazionale, che ha ampiamente continuato a legiferare in materia senza alcuna reale discontinuità con il passato.

 

Questo è stato possibile sulla scia di una normativa europea sempre più dettagliata e, sul piano interno, di una giurisprudenza costituzionale che, nel tentativo di sorreggere una riforma oggettivamente monca di una Camera di rappresentanza territoriale, ha valorizzato la competenza esclusiva dello Stato sulle cd. materie trasversali (in questo caso, la tutela della concorrenza, l’ordinamento civile, i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali) e definito meccanismi di prevalenza e di concertazione laddove le competenze si intrecciavano. Tutto questo ha consentito al legislatore statale il recupero di ambiti di competenza che, a prima lettura, sembravano restringersi

 

Di fatto, se si analizzano le due grandi codificazioni rientranti a pieno titolo sotto l’etichetta “ordinamento della comunicazione”, vale a dire il Codice delle comunicazioni elettroniche e il Testo Unico dei servizi media audiovisivi (ex Testo Unico sulla radiotelevisione) si scorge immediatamente come il Legislatore statale abbia provveduto, in entrambe le codificazioni, a definire in entrambi i settori gli ambiti di intervento delle Regioni, ricostruendo quindi all’interno della materia complessiva un piccolo (ma non privo di interesse) ambito rimesso all’intervento locale.

 

Si può, dunque, forse dire che di fatto il legislatore nazionale abbia continuato ad operare come fosse il titolare esclusivo della competenza e che, quindi, la modifica proposta dal Governo si limiti a una formalizzazione di quanto avvenuto?

 

In parte probabilmente sì. Nonostante, infatti, un iniziale entusiasmo e alcune proposte avanzate nell’immediato, solo alcune Regioni sono intervenute legislativamente e quando ciò è avvenuto l’intervento è stato per lo più specifico e ultrasettoriale. Peraltro, va detto che oggettivamente l’interesse tradizionale delle Regioni a incidere in materia è rapidamente diminuito con lo sviluppo di nuovi mezzi di comunicazione (così globali da sfuggire anche ai tentativi di regolazione statali) e con il declino della radiotelevisione locale.

 

Tuttavia, occorre considerare che un ambito di interesse locale continua ad esistere. Diverso certamente da quello del passato. Certamente più eterogeneo, in quanto composto da vecchi attori come le tv locali e le radio locali (in bilico tra la difesa della trasmissione via etere e il trasferimento sul web, oggi, e nel mondo delle smart-tv, domani) e nuovissimi fornitori di servizi internet sia fissi (i già vecchi internet point e i più nuovi access point) sia mobili (come i fornitori Wi-Max regionali). Inoltre, vi sono poi le start up, quelle legate ad Internet, che hanno molte volte un profilo almeno inizialmente locale e potrebbero anche giovarsi di una qualche forma di concorrenza interregionale.

 

Se quindi è possibile isolare ancora oggi un ambito di interesse prettamente locale appare quindi preferibile introdurre (come sarebbe stato opportuno già nel 2001) una distinzione per ambiti nell’ “ordinamento della comunicazione”, salvaguardando così il potere anche legislativo delle Regioni di intervenire a livello locale nei limiti dei principio fondamentali posti dalla legislazione statale

 

5. La seconda questione è quella delle reti di comunicazione elettronica. Nel testo oggi in vigore manca un riferimento specifico alle reti e, pertanto, alcuni profili, come la Corte Costituzionale ha avuto modo di osservare rientrano sicuramente nella materia “ordinamento della comunicazione”. Anche nel d.d.l. costituzionale manca ogni autonomo riferimento alle reti, per cui sembrerebbe doversi concludere che anche la loro disciplina verrebbe attratta interamente nella competenza legislativa esclusiva dello Stato a seguito dello spostamento dell’ “ordinamento della comunicazione” nel catalogo di cui all’art. 117, secondo comma.

 

La questione merita di essere trattata partendo dalla considerazione che le reti di comunicazione elettronica sono oggi, dopo l’approvazione del Trattato di Lisbona, inserite tra le materie per cui i Trattati prevedono una competenza concorrente tra Unione Europea e Stati.

 

Senza addentrarsi sulle conseguenze di tale scelta né sull’enorme differenza esistente tra la competenza concorrente europea e quella italiana, la scelta europea di dare autonoma rilevanza alle reti risponde bene all’importanza che esse hanno oggi assunto nonché al fatto che esse hanno ormai cessato di essere essenzialmente il presupposto per operare nel settore delle comunicazioni per divenire, invece, un mezzo essenziale con cui il cittadino vive nella società contemporanea. Il che se è concesso dirlo in modo certamente un poco enfatico le “separa” dall’ordinamento della comunicazione per farle divenire il fondamento di molte attività quotidianamente svolte dai cittadini.

 

Nel momento in cui si decide di metter mano alla Costituzione si deve, dunque, recepire questo cambiamento, che, in questo caso, richiede sia data alle reti di comunicazione elettronica autonoma rilevanza.

 

Sempre tenendo presente che gli spazi lasciati liberi dalla normativa europea sono alquanto ristretti, anche qui appare preferibile distinguere un ambito nazionale ed uno locale, rimettendo il primo alla legislazione esclusiva dello Stato e lasciando il secondo alla competenza concorrente Stato-Regioni.

 

Nell’ambito dei principi fondamentali dello Stato, le Regioni e le autonomie locali devono, infatti, poter contribuire alla diffusione della banda larga oggi e di quella superlarga domani. Questo peraltro è già avvenuto, in alcune realtà, attraverso la posa di fibra ottica spenta, accordi regionali o locali con operatori, creazione di distretti tecnologici per le imprese regionali.

 

È assolutamente necessario non ostacolare questi progetti ma semmai coordinarli al fine di evitare duplicazioni e sprechi.

 

Altrettanto non si deve impedire alle Regioni di puntare sull’innovazione per lo sviluppo dei territori. Le reti per la banda ultra larga, in particolare, offrono occasioni anche impensabili se colte in anticipo, per colmare lo storico divario economico oggi esistente nel Paese tra il sud e il nord e tra le diverse aree territoriali.

 

Lo spostamento della materia ordinamento della comunicazione, così come oggi è proposta, potrebbe ostacolare queste iniziative anche tenendo presente che il d.d.l. costituzionale cancella anche la possibilità per lo Stato di delegare alle Regioni il potere regolamentare nelle materie di propria competenza. Questa scelta si presta evidentemente a ridurre ulteriormente ed eccessivamente il ruolo delle Regioni e degli enti locali in questo settore.

 

6. In conclusione occorre dire che l’iniziativa del Governo suscita non poche perplessità.

 

Si è già detto di quelle specificamente riguardanti il riposizionamento dell’ordinamento della comunicazione senza distinzione di ambiti così come della necessità di dare autonoma rilevanza alle reti di comunicazione elettronica.

 

A queste va aggiunta anche una considerazione più generale.

 

Se la riforma proposta dal Governo andasse in porto nonostante i tempi strettissimi, si tratterebbe della seconda rilevante revisione costituzionale (dopo l’intervento che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio) che viene adottata su iniziativa di un Governo tecnico e approvata da un Parlamento con equilibri politici ormai stravolti e non rappresentativi dei nuovi equilibri politici che vanno formandosi nel Paese.

 

Inoltre l’approvazione avverrebbe senza alcuna possibilità di aprire un dibattito né nell’opinione pubblica, ovviamente concentrata sulla campagna elettorale né con gli enti territoriali, vale a dire i soggetti istituzionali su cui la riforma incide. Questi ultimi in particolare sono, come recita l’art. 114 (non oggetto di proposte di riforma) della Costituzione, elementi costitutivi della Repubblica italiana e non possono essere del tutto ignorati oppure peggio sopraffatti, in un momento di loro oggettiva difficoltà tanto politica quanto economica.

 

Un cambiamento repentino della Costituzione capace di incidere nuovamente (anche il principio del pareggio di bilancio lo ha fatto) sulla forma di Stato non può quindi essere considerato un fatto positivo, se esso appare chiaramente realizzato sull’onda emotiva, dopo che il medesimo Parlamento che oggi dovrebbe approvare la riforma costituzionale aveva, invece, dato il via libera ad inizio legislatura ad un provvedimento di segno molto diverso, il cd. federalismo fiscale, con un consenso olto più ampio dell’allora maggioranza di governo.

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