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Di seguito un articolo a firma della Dott.ssa Elena Falletti, Ricercatrice di Diritto privato comparato presso l’Università ‘Carlo Cattaneo’ di Castellanza, pubblicato su Medialaws, sito che propone analisi e approfondimenti tecnici su Leggi e Policy dei Media, offerti in una prospettiva comparativa, con il quale Key4biz ha avviato una collaborazione editoriale.
Internet si è rivelato essere il più forte ed efficiente veicolo di imitazione giuridica oggi a nostra disposizione. Non capita di rado, infatti, che i giudici nel decidere le fattispecie in materia di diritto della Rete facciano riferimento a sentenze straniere attraverso la comparazione quando vi è un problema simile in altri ordinamenti ed è così possibile avere una risposta tendenzialmente armonizzata. La prassi internazionale è spesso strumento veicolare per lo scambio di modelli e, soprattutto, cultura giuridica. Internet ne moltiplica in modo quasi esponenziale gli effetti. Con questo contributo si intende offrire una breve panoramica sui recenti orientamenti giurisprudenziali comparati inerenti le tematiche della tutela della onorabilità, reputazione e diffamazione.
Per iniziare la rassegna ci si focalizza sui portali di informazione su Internet. Essi sono generalmente gestiti da editori di testate cartacee: secondo la giurisprudenza maggioritaria vige il principio di non responsabilità per commenti ovvero materiali pubblicati da terzi, mentre il gestore del portale è direttamente responsabile quando i materiali pubblicati sono riconducibili a giornalisti ovvero operatori afferenti alla struttura telematica. Questo orientamento è diffuso in diritto comparato, infatti si segnala una recente giurisprudenza spagnola, proveniente dal Tribunal Supremo spagnolo del 10 febbraio 2011, di condanna del portale web Alasbarricadas.org per violazione dell’onore e per diffamazione di un artista. Il risarcimento, già statuito dall’Audiencia Provincial di Madrid, è stato quantificato in 6000 Euro. La condanna si è fondata sull’interpretazione della legge spagnola di implementazione della Direttiva 31/2001/CE in materia di commercio elettronico “Ley de Servicios de la Sociedad de la Información y de Comercio Electrónico (LSSI)”, secondo cui “i prestatori di servizi di hosting di dati sono responsabili delle informazioni ospitate qualora siano a conoscenza della lesione dei diritti di un terzo. Si possono esimere da questa responsabilità solo se con diligenza ritirino le espressioni diffamatorie o ne rendano impossibile l’accesso“. Questa decisione ha provocato un vivace dibattito in Spagna.
Al contrario una recensione negativa e molto critica di un testo accademico pubblicata su una rivista giuridica elettronica non costituisce diffamazione. Il caso, deciso dal Tribunal de
Grande Instance di Parigi il 3 marzo 2011, che ha dato origine al contenzioso ha sollevato grande scalpore nel mondo della ricerca scientifica. Una docente universitaria franco-israeliana pubblicò un testo giuridico in lingua inglese, oggetto di una recensione alquanto dura scritta da un professore tedesco su una rivista online in lingua inglese. La professoressa si lamentò con l’Editor in Chief della rivista, affermando che la recensione era diffamatoria verso il suo lavoro e chiedendone la rimozione. L’editor, professore francese docente di una università americana, rifiutò, accordando però alla professoressa il diritto di replica. Per tutta risposta costei citò editor e recensore per diffamazione davanti ai giudici francesi. I giudici aditi hanno dato torto alla professoressa a causa della loro carenza di giurisdizione sulla materia del contendere e condannando la ricorrente al risarcimento di 8.000 per abuso del processo per il suo “forum shopping” e hanno osservato che le critiche al suo lavoro non erano né diffamatorie né eccedevano i limiti del diritto di critica, perciò non violavano la sua onorabilità. Qualora fossero pubblicati materiali diffamatori, la giurisprudenza francese ha affermato che è compito del giudice, e non del provider, ordinare di cancellare affermazioni diffamatorie (Tribunal de Grande Instance de Béziers, 8 aprile 2011).
Per quanto concerne il rapporto tra anonimato e tutela dell’onorabilità, l’esperienza statunitense è di sicuro interesse. La dottrina americana si duole sia sulla protezione dell’anonimato offerta dalle Corti sia il maggiore ostacolo per gli attori colpiti dalla diffamazione, sia sulla facilità di nascondersi online dietro a un fake o a un nickname e che costoro, garantiti dall’anonimato, usano un linguaggio e degli argomenti che mai adopererebbero se utilizzassero il loro vero nome.
A questo proposito, è interessante verificare le decisioni delle Corti statunitensi: infatti, la Corte Suprema esclude senza dubbio alcuno la tutela costituzionale in caso di opinioni e commenti diffamatori. È stato ben osservato che ogni espressione è parte essenziale dell’esposizione delle idee e ogni piccola considerazione di valore sociale può venire considerata come un passo verso la verità e ogni beneficio che se ne può trarre può chiaramente influenzare gli interessi sociali di ordine morale (US Supreme Court, Chaplinsky v. State of New Hampshire, 315 U. S. 568, 572 (1942); Roth v. United States, 354 U.S. 476, 484 (1957).
La Supreme Court of Delaware ha osservato sul punto che Internet è uno strumento mediatico di democratizzazione come mai se ne erano visti in precedenza. Il suo avvento ha radicalmente cambiato la natura del pubblico dibattito, allargandolo alle più diverse categorie di cittadini. Soltanto trent’anni fa, molti cittadini erano esclusi da una significativa partecipazione al dibattito politico pubblico da limiti sociali, di istruzione o finanziari. Esclusivamente una piccola parte di persone, costituita da eminenti personaggi, era in grado di influenzare il mercato delle idee (Supreme Court of Delaware, Cahill v. Doe, C.A. No. 04C-011-022).
È comunque necessario contemperare il diritto garantito a chiunque di utilizzare Internet, la sua diffusione e la sua potenza, quale mezzo per svolgere un dibattito politico, anche anonimamente, con il diritto di chiunque all’integrità della propria reputazione. Senza la garanzia dell’anonimato, gli internauti tenderebbero ad autocensurarsi o ad evitare di postare la propria opinione. Infine, il timore che alcuni abusino delle opportunità offerte da Internet non deve andare a scapito del generale interesse al libero scambio delle opinioni e alla circolazione delle idee. Il bilanciamento degli interessi in gioco è offerto dalla garanzia di un fair trial, un processo equo, il quale non sia esclusivamente un deterrente, anche in conseguenza dei risarcimenti in denaro per gli anonimi postatori e utilizzabile dai ricorrenti con esclusive e preventive finalità censorie.
Il dibattito sulla protezione dell’anonimato coinvolge anche la rivelazione degli indirizzi di Internet Protocol, ovvero quei codici numerici che consentono di individuare, attraverso il fornitore di connettività, il terminale dal quale un utente si connette alla Rete e quindi alla sua identità. A questo proposito, si segnala un’interessante decisione di una Corte distrettuale del Colorado (United States District Court, D. Colorado, Faconnable USA Corp. v. Doe), davanti alla quale un ricorrente aveva proposto istanza contro un Internet provider service affinché svelasse le informazioni collegate a due Internet Protocol.
Nel decidere, il giudice ha fatto un bilanciamento di interessi: da un lato ha valutato la probabilità di successo dell’azione legale, la minaccia di un danno irreparabile in caso di negato accoglimento dell’istanza del ricorrente e, dall’altro, l’assenza di danno ingiusto per gli opponenti ed infine la presenza di rischi o danni per il pubblico interesse, in particolare per i beni protetti dal Primo Emendamento, in primis la libertà di manifestazione del pensiero, regressiva rispetto alla tutela dell’onorabilità.
Recentemente, in relazione alla pubblicazione di video diffamatori durante lo svolgimento delle primarie repubblicane del 2011, il comitato elettorale del candidato alle elezioni primarie del partito repubblicano Ron Paul ha citato in giudizio un anonimo utente di YouTube per aver pubblicato online un video di critica all’allora candidato concorrente Jon Huntsman, concentradosi sul suo precedente incarico di ambasciatore in Cina e invitando a votare per Ron Paul. I ricorrenti chiedevano l’identificazione di tal “NHLiberty4Paul” ed affermavano che tale video costituisse un esempio di strategia orientata a danneggiare la reputazione di Ron Paul attribuendogli delle critiche che costui non aveva manifestato e ingannando così stampa e opinione pubblica. La United States District Court, Northern District of California, ha rigettato l’istanza poiché non sufficientemente esaustiva nei suoi presupposti (Ron Paul 2012 Presidential Campaign Committee, Inc. v. Does, 25.1.12).
In un altro caso giudicato dai giudici statunitensi, uno sconosciuto aveva inviato una email ad un numero imprecisato di destinatari attraverso una mailing list. La mail conteneva informazioni molto critiche sulle pratiche commerciali e di servizio poste in essere da un certo resort caraibico. Indignati per l’attacco subito, i gestori del resort hanno depositato una istanza presso la corte statale di New York al fine di ottenere un mandato che obbligasse Google all’identificazione del titolare dell’account Gmail dal quale il messaggio offensivo è partito. La corte adita, tuttavia, ha rigettato l’istanza e i soccombenti hanno impugnato. La Appellate Court ha confermato la decisione di primo grado perché il messaggio incriminato conteneva una mera opinione espressa con un certo tono che nessuno potuto confondere con la ricostruzione di un fatto (Sandals Resorts Intern. Ltd. v. Google, Inc., 2011 WL 1885939, 19.5.11).
Il blogger che effettui inchieste investigative e che venga citato in giudizio per diffamazione non può avvalersi della legge che garantisce al giornalista di mantenere riservate le proprie fonti.
Con una decisione piuttosto criticabile, il giudice distrettuale ha addotto all’uopo due ragioni: 1) il blogger non è riuscito a dimostrare di essere affiliato con mezzi di comunicazione come giornali, riviste, periodici, libri, pamphlet, agenzie di stampa, notiziari, sistemi di trasmissione radiofonica, televisiva o via cavo; 2) la legge invocata dal blogger esplicitamente esclude il suo scudo protettivo nei confronti di allegazioni di diffamazione in cause civili di risarcimento del danno (United States District Court for the District of Oregon, Portland Division, Obsidian Finance Group, LLC v. Cox, 30.11.11).
Nel common law inglese la High Court of Justice, Queen’s Bench, ([2012] EWHC 449 (QB), Tamiz v. Google, 2.3.12) ha affermato che Google non può essere considerato un editore poiché seppure gestisca un servizio di notifica di commenti offensivi, questa circostanza non converte immediatamente il suo status o ruolo in quello di un editore. La fattispecie concreta riguardava una causa intentata contro Google dopo che sul London Muslim blog (ospitato dalla piattaforma Blogger) sono stati pubblicati commenti ritenuti dal ricorrente inappropriati e diffamatori che hanno provocato la rinuncia alle sue ambizioni di candidato conservatore di religione mussulmana, alle elezioni locali.
La decisione [2011] EWCA Civ 1534, Terluk v. Berezovsky (del 15.12.11) riguarda l’asserito contenuto diffamatorio della ricostruzione dell’omicidio di Alexander Litvinenko in un programma trasmesso da una televisione russa visibile in Inghilterra, nonché la sua diffusione via Internet. I giudici si sono soffermati sul concetto di “defamatory” in diritto inglese anche alla luce dell’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Per quanto concerne le giurisdizioni del Commonwealth, in caso di diffamazione su un forum Internet monitorato, la High Court of the Hong Kong Special Administrative Region, nella causa Oriental Press Group Ltd and Another v. Fevaworks Solutions Ltd ([2012] Hkca 5; CACV53/2011, 11.1.12) ha deciso sulla responsabilità del server provider per commenti postati su forum e ritenuti diffamatori. In questo caso gli attori sono il più importante gruppo editoriale di Hong Kong e il suo proprietario e i convenuti sono i gestori di una piattaforma di discussione. Tale forum è suddiviso in più sezioni ed è monitorato quotidianamente da due amministratori dalle 10 alle 19, tuttavia il grande traffico informativo non consentiva loro un controllo approfondito sul contenuto ovvero sulla veridicità delle notizie. Nel 2009, al di fuori dell’orario monitorato, vennero pubblicati messaggi diffamatori sugli attori durante un periodo di quattro mesi, nonostante tali informazioni venissero rimosse successivamente. Applicando precedenti di common law, i giudici hanno rigettato l’appello degli attori perchè i convenuti non solo hanno cancellato gli interventi diffamatori, ma non è comunque possibile richiedere loro un’attività censoria preventiva in quanto essa sarebbe discriminatoria e non sostenibile per un piccolo operatore come quello convenuto.
Uno dei punti più accesi del dibattito sulla responsabilità ha trovato una autorevole soluzione da parte della Corte Suprema canadese, nella decisione, Crookes v. Newton, (2011 SCC 47, 19.10.11), la quale ha stabilito che postare un link in un testo pubblicato online non costituisce diffamazione. Il punto chiave della motivazione concerne il passaggio in cui il giudice estensore afferma che “un hyperlink, di per sé, non è considerabile come “pubblicazione” del contenuto cui si riferisce“. Esso quindi sarebbe equiparabile a una citazione, come le note a piè pagina dei testi scientifici ove vengono riportate le fonti delle informazioni.
Mentre la High Court of Australia, nella causa Hogan v Hinch [2011] HCA 4, (10.3.11) si è occupata del rapporto tra offese alla pubblica decenza e libertà di manifestazione del pensiero. La decisione in questione concerne la violazione del Serious Sex Offenders Monitoring Act 2005 che sarebbe stata commessa dall’imputato, titolare di una radio, attraverso il suo sito web e in occasione di una pubblica manifestazione di protesta. Di contrasto, l’imputato ha lamentato la contrarietà alla Costituzione, precisamente al Ch. 3 relativamente alle modalità di svolgimento del suo processo, nonché ha rivendicato la libertà di manifestazione del pensiero. La Corte ha rigettato queste istanze affermando che la normativa contestata può essere applicata compatibilmente con il rispetto dei diritti umani.