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Direttiva eCommerce e responsabilità dei motori di ricerca: recenti orientamenti giurisprudenziali

Italia


Pubblichiamo di seguito un contributo tratto da Portolano Cavallo INFORM@, Newsletter di Portolano Cavallo Studio Legale

 

Una recente ordinanza del Tribunale di Firenze offre alcuni spunti di riflessione interessanti sulla questione relativa alla responsabilità del motore di ricerca per i contenuti/informazioni memorizzati nella fornitura del relativo servizio, figura che non è espressamente regolata dalle norme sulla responsabilità dell’Internet Service Provider contenute nella Direttiva 2000/31/CE sul commercio elettronico (“Direttiva Ecommerce“).

Con ordinanza depositata il 25 maggio 2012, il Tribunale di Firenze ha respinto il ricorso presentato dalla società Antonio Meneghetti S.r.l., del Prof. Antonio Meneghetti, contro Google Inc. per la rimozione dai risultati del motore di ricerca Google del link al sito onto.provocation.net.

Secondo la ricorrente, attraverso il sito in questione, sarebbero stato diffusi contenuti lesivi dei diritti di proprietà intellettuale (nella specie, diritto d’autore, marchi/loghi) e della reputazione del prof. Meneghetti.

Il ricorso della Meneghetti S.r.l. è stato presentato soltanto nei confronti di Google Inc., e non anche nei confronti del gestore del sito su cui le violazioni lamentate sarebbero state commesse, essendo quest’ultimo sconosciuto.

In primo luogo, il Tribunale ha escluso la illiceità dei contenuti del sito in questione e la contraffazione di marchio, in quanto il sito avrebbe effettuato solo un richiamo, seppure a sfondo critico, ai segni di proprietà della ricorrente, senza alcuna appropriazione di contenuti e senza alcuna alcuna finalità di sfruttamento economico.

La parte più interessante dell’ordinanza in esame è, però, quella relativa alle affermazioni concernenti la responsabilità del motore di ricerca, tema che il Tribunale di Firenze ha affrontato nonostante l’esclusione del carattere illecito dei contenuti del sito, nei termini sopra chiariti.

In primo luogo, il Tribunale di Firenze ha affermato che, nella fattispecie concreta, Google Inc. può essere definita come caching provider, “avendo la gestione diretta dell’omonimo motore di ricerca, con cui procede alla indicizzazione dei siti ed alla formazione di copie cache dei loro contenuti, con memorizzazione temporanea delle informazioni“.

In realtà, la figura del motore di ricerca non è espressamente regolata dalla Direttiva Ecommerce. La Direttiva Ecommerce disciplina tre figure di prestatori di servizi della società dell’informazione (access provider, caching provider e hosting provider) i quali, qualora agiscano come meri intermediari e siano rispettate le condizioni previste dalle relative norme della Direttiva Ecommerce (in particolare, articoli 13, 14 e 15), possono essere esenti da responsabilità per le informazioni che trasmettono.

L’unico riferimento ai motori di ricerca contenuto nella Direttiva Ecommerce si rinviene all’articolo 21, paragrafo 2, laddove si prevede che la Commissione europea dovrà valutare, tramite apposita relazione, la necessità di proposte relative alla “responsabilità dei fornitori di collegamenti ipertestuali e di servizi di motori di ricerca“.

Nella sua prima relazione in merito all’applicazione della Direttiva Ecommerce del 21 novembre 2003, la Commissione europea ha rilevato che soltanto alcuni Stati dell’UE hanno introdotto norme specifiche volte a limitare la responsabilità dei motori di ricerca. Nella medesima relazione, la Commissione esprime inoltre la propria disponibilità a valutare “l’esigenza di limitare ulteriormente la responsabilità giuridica per altre attività quali la fornitura di hyperlink e di motori di ricerca“.

La riconduzione del motore di ricerca alla figura del caching provider implica l’assoggettamento dello stesso alle regole di responsabilità previste per tale figura di fornitore di servizi dalla Direttiva Ecommerce, recepita in Italia con il D. Lgs. 70/200 (“Decreto Ecommerce“). In particolare, l’articolo 15, paragrafo 1, del Decreto Ecommerce, dopo aver definito il caching provider come il fornitore di un servizio di “memorizzazione automatica, intermedia e temporanea [di informazioni fornite da un destinatario del servizio] effettuata al solo scopo di rendere più efficace il successivo inoltro ad altri destinatari a loro richiesta“, chiarisce che tale fornitore non è responsabile per la predetta memorizzazione a condizione che:

a)      Non modifichi le informazioni;

b)      Si conformi alle condizioni di accesso alle informazioni;

c)      Si conformi alle norme di aggiornamento delle informazioni, indicate in un modo ampiamente riconosciuto e utilizzato dalle imprese del settore;

d)      Non interferisca con l’uso lecito di tecnologia ampiamente riconosciuta e utilizzata nel settore per ottenere dati sull’impiego delle informazioni;

e)      Agisca prontamente per rimuovere le informazioni che ha memorizzato, o per disabilitare l’accesso, non appena venga effettivamente a conoscenza del fatto che le informazioni sono state rimosse dal luogo dove si trovavano inizialmente sulla rete o che l’accesso alle informazioni è stato disabilitato oppure che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa ne ha disposto la rimozione o la disabilitazione.

Inoltre, l’autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzioni di vigilanza possono esigere, anche in via d’urgenza, che il prestatore, nell’esercizio dell’attività di caching, impedisca o ponga fine alle violazioni commesse (articolo 15, paragrafo 2, del Decreto Ecommerce).

L’ordinanza del Tribunale di Firenze risulta interessante soprattutto per i profili che riguardano i presupposti in base ai quali il prestatore di servizi è tenuto ad attivarsi ai fini della rimozione dei contenuti da esso memorizzati.

Secondo il Tribunale di Firenze, deve ritenersi che “la conoscenza effettiva della pretesa illiceità dei contenuti del sito de quo non possa essere desunta neppure dal contenuto delle diffide di parte, trattandosi di prospettazioni unilaterali“. Ne consegue che, al fine di valutare se un prestatore di servizi abbia “effettiva conoscenza” della illiceità dei contenuti memorizzati, è necessario che un “organo competente abbia dichiarato che i dati sono illeciti, oppure abbia ordinato la rimozione o la disabilitazione dell’accesso agli stessi, ovvero che sia stata dichiarata l’esistenza di un danno, e che l’ISP stesso sia a conoscenza di una tale decisione dell’autorità competente“.

Pertanto, nell’opinione del Tribunale, la “conoscenza effettiva” della illiceità dei contenuti, e il conseguente dovere di rimozione degli stessi, si avrebbero soltanto in presenza di un ordine di un’autorità giudiziaria che dichiari l’illiceità di tali contenuti e ne disponga la rimozione.

L’ordinanza del Tribunale di Firenze si inserisce in un recente contesto giurisprudenziale sul tema che ha visto affermarsi  il principio della necessità di una dettagliata e specifica indicazione, da parte dei titolari dei diritti, dei contenuti/informazioni da rimuovere e delle relative pagine web (così il Tribunale di Roma, IX Sezione, sentenza 20 ottobre 2011, RTI c. VBBCOM.LIMITED e Choopa LLC, in cui il Tribunale ha affermato che “una diffida “generica”, che non indichi in maniera puntuale i contenuti da rimuovere, non sarebbe idonea a fondare un obbligo di attivazione in capo all’ISP in relazione ai contenuti trasmessi“).

Sarà interessante vedere se e in che misura le corti italiane confermeranno l’orientamento espresso dal Tribunale di Firenze.

 

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