Italia
Le Olimpiadi 2020 non si faranno a Roma o meglio la candidatura non verrà neanche formalizzata.
La decisione è del premier Mario Monti ed è caduta nel giorno diSan Valentino: più che una dichiarazione d’amore, una decisione di separazione…
Naturalmente le reazioni sono state spropositate tra i fautori della candidatura: amarezza, sconcerto o addirittura tradimento delle italiche attese.
Al di là della bagarre, vediamo quali sono i punti di vista.
Innanzitutto il punto di vista del governo o meglio del premier Monti in primis (dal momento che alcuni importanti ministri si erano timidamente espressi favorevolmente alla candidatura), che non ha lasciato dubbi: costo eccessivo, certezza sostanziale di una lievitazione delle spese inevitabile e probabilmente incontrollabile.
In un momento in cui il Paese fa economia e sacrifici, pensare di bloccare 10 o 20 o 30 miliardi (l’imprevedibilità della spesa la dice lunga) sarebbe stato insostenibile.
In aggiunta, ha pesato lo spettro dei costi delle Olimpiadi di Atene che hanno di fatto avviato il default della Grecia e la disperazione dei britannici sulla lievitazione dei costi di Londra 2012.
I promotori della candidatura italiana, da canto loro, sindaco di Roma Gianni Alemanno in testa (affiancato ovviamente dal Coni e dal Comitato promotore sorretto da Gianni Letta e Francesco Rutelli) puntavano su una candidatura di prestigio e d’immagine.
Con quale obiettivo?
Ridare smalto alla percezione internazionale dell’Italia, per scommettere sul futuro, per assicurare alla collettività opere civili importanti.
Sarà, ma quello che ci frulla in testa è il lunghissimo elenco di opere inutili costruite per anni in occasione d’importanti eventi sportivi internazionali, costate il triplo, lasciate in abbandono dopo le manifestazioni per le quali erano state costruite.
È una storia che conosciamo bene e del cui marchio ci sembra difficile o impossibile liberarci.
Non è certo la Spectra o qualcosa di simile a preoccuparci, ma le tante “cricche” nazionali e locali che fanno l’assalto alla diligenza, senza che i controllori facciano il loro mestiere.
In questo, è il caso di ricordarlo, non siamo secondi a nessuno.
Stiamo pagando ancora i debiti di impianti mai usati per Italia ’90, poi c’è anche un elenco infinito di soldi buttati dalla finestra per le Olimpiadi Invernali di Torino e, ultimi, i campionati del mondo di nuoto in Italia del 2009…
Ma le Olimpiadi sono una manifestazione internazionale che coinvolge il pubblico nazionale e ancor di più quello globale, che partecipa, attraverso tutte le modalità possibili: con la presenza fisica negli stadi o con la visione attraverso la TV e tutti i device oggi disponibili.
Quanto partecipazione da remoto sia importante è testimoniata dai record di ascolto televisivo di manifestazioni come Olimpiadi e Mondiali di Calcio.
Dal punto di vista del pubblico italiano, la mancata candidatura non toglie nulla alla partecipazione del pubblico e alla condivisione delle emozioni che l’evento scatena.
A eventi di tale portata la partecipazione del pubblico nazionale in termini di presenza fisica è del tutto irrilevante, tanto più se si considera la contestuale partecipazione di spettatori fisici provenienti da ogni parte del mondo, che rappresentano in genere la maggioranza assoluta sugli spalti.
Il pubblico italiano, candidatura o no, assegnazione delle Olimpiadi o no, avrebbe comunque assistito (anzi assisterà comunque) all’evento attraverso la televisione, il pc, il tablet, lo smartphone.
E questo ci consente di spostare il focus del problema, valutandone la portata da un punto di vista differente.
Insomma occorre cambiare paradigma.
È infatti cambiato, e vorrei aggiungere senza ritorno, il modo di consumare i grandi eventi.
Non più attesa spasmodica per essere presenti fisicamente, ma mobilitazione per disporre di tutte le modalità migliori per potere essere always on.
Del resto, guardate una partita dagli spalti e guardatela domenica pomeriggio attraverso, ad esempio, Sky.
E non a caso Sky sarà la tv ufficiale oltre che per Londra 2012, anche per i Giochi Olimpici Invernali del 2014 (che si terranno nella cittadina russa di Sochi) e per l’edizione estiva del 2016 in Brasile. I servizi così trasmessi saranno fruibili oltre che sul televisore anche sui device mobili.
Si certo, si dirà, ma il mood dello stadio è comunque irripetibile, per quell'”effetto presenza” che non può essere riprodotto in casa.
Ma è anche vero (e lo spettatore ormai non rinuncia più a queste facilities) che pesa di più la possibilità di vedere quel gesto o quel fallo ripreso da molteplici punti di vista o ripetuto al rallenty, con l’evidenza espressiva delle smorfie, del dolore dell’atleta, della sua gioia, tutte cose che è impossibile guardare dalle tribune. Non è infatti un caso se è sempre più frequente incontrare persone che vanno allo stadio con tablet e smartphone con schermo da4 pollici, che poi è la stessa ragione per la quale gli stadi hanno cominciato a montare schermi giganti su cui mandare anche immagini raccolte da bordo campo.
Oggi vogliamo partecipare agli eventi sportivi, ma ciò che più conta è che vogliamo vederli ripresi da tanti punti di vista, con tante telecamere, con simultaneità tra vari impianti, con l’esaltazione del “tempo reale” e a tutto questo va aggiunta la qualità di immagine, la sua definizione, la incisività dei colori: altro che effetto presenza sugli spalti.
Entra in gioco l’alta definizione con la qualità spettacolare delle immagini e, contestualmente, la diffusione della TV 3D, che nei prossimi mesi diventerà la vera novità del salotto di casa.
In definitiva, smettiamola di considerare la mancata candidatura come un’occasione mancata.
Facciamo organizzare ad altri (Emirati, i nuovi Paesi ricchi emergenti?) manifestazioni così impegnative, il cui tetto di spessa rimane ormai imprevedibile per effetto di una corsa competitiva senza regole.
Prendiamo atto che è cambiato il modo di consumare i grandi eventi.
La comunicazioneelettronica ci riserva ancora traguardi straordinari. Siamo ancora, verrebbe voglia di dire, alle prove generali.
Concentriamoci invece sulla possibilità che aziende italiane possano contribuire alle catene del valore di tali grandi eventi.
I nostri politici potrebbero convincersi un giorno che il nostro benessere potrebbe dipendere non dai milioni di metri cubi di cemento, ma da conoscenze, expertise, capacità commerciali di creare, diffondere e vendere innovazione.
Faremo questo cambio di paradigma?