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Il divieto, per i fornitori di servizi internet a banda larga, di far pagare i siti web affinché questi si vedano garantire un accesso ‘preferenziale’ ai loro clienti – che rappresenta il fondamento del principio net neutrality – è al centro di forte dibattito. Negli Usa, il presidente Obama è arrivato a porre il proprio veto a una risoluzione che avrebbe scardinato questo principio; risoluzione che è stata respinta dal Senato (Leggi articolo Ke4biz).
Contrari a questo principio sono principalmente i fornitori di servizi (per lo più gli operatori telefonici) che, alle prese con l’ascesa dei fornitori di contenuti – i cosiddetti OTT, come Google – cercano un modo per ottenere nuove entrate da investire – dicono – nell’aggiornamento delle reti, di modo che le infrastrutture possano sopportare la crescita esponenziale del traffico generata per la maggior parte proprio dalla popolarità di siti come YouTube.
C’è, però, chi confuta questa tesi e sostiene anzi che farsi pagare per dare priorità a un dato flusso di traffico rispetto ad altri sarebbe un disincentivo all’espansione e al miglioramento delle infrastrutture.
Fornitori di contenuti come i principali quotidiani o come Google sarebbero infatti ben disposti a mettere mano al portafogli se questo volesse dire far arrivare i loro contenuti agli utenti più velocemente di altri. Gli ISP ci guadagnerebbero e gli utenti non vedrebbero mantenuta la promessa di connessioni più veloci e di migliore qualità.
Dal momento che sull’argomento manca una rigorosa analisi economica, un gruppo di ricercatori – H. Kenneth Cheng e Subhajyoti Bandyopadhyay (University of Florida – Warrington College of Business Administration) e Hong Guo (University of Notre Dame) – ha deciso di colmare il gap sviluppando un modello di teoria dei giochi per affrontare due questioni cruciali della net neutrality: 1) chi perde e chi guadagna dall’abbandono della neutralità; 2) I fornitori di servizi internet avranno maggiori incentivi a espandere le loro reti senza net neutrality?
Dai risultati dello studio emerge che se la net neutrality fosse abolita, gli ISP non avrebbero incentivi a migliorare le loro reti per attrarre nuovi clienti, come avviene ora.
I ricercatori fanno l’esempio di una qualsiasi strada intasata nell’ora di punta, immaginando che questa strada sia internet e che le auto bloccate rappresentino i pacchetti di dati, con l’Isp nel ruolo di responsabile del traffico sulla strada.
Se all’Isp fosse consentito di far passare in testa alla fila le auto di chiunque sia disposto a pagare una ‘tassa priorità’ per ottenere questo vantaggio, si chiedono quindi i ricercatori, allora l’ISP sarebbe più incentivato a mantenere il traffico congestionato o ad ampliare la portata della strada?
In questo scenario, insomma, gli ISP guadagnerebbero molto di più quando il traffico è bloccato, perché se questo fosse scorrevole nessuno pagherebbe per avere un servizio più veloce.
In un internet non neutrale, insomma, agli ISP non importerebbe granché di migliorare il servizio per attrarre nuovi clienti: il business si fonderebbe infatti su dinamiche diverse, che rischiano però di creare una rete a due corsie. La prima, preferenziale, per i siti e i servizi disposti a pagare e che, quindi, ‘salterebbero la fila’ anche quando il traffico è bloccato. La seconda per quelli che non pagano, i quali saranno obbligati a stare in attesa che il traffico si smaltisca.
Se l’obiettivo delle politiche pubbliche è di espandere la disponibilità di banda larga e ridurre la congestione del traffico, allora i decisori dovrebbero “non tanto considerare chi vince o chi perde nel breve periodo, quanto focalizzarsi sulle conseguenze a lungo termine delle loro scelte”, affermano i ricercatori, i quali concludono sottolineando che l’eliminazione della net neutrality metterebbe a rischio gli investimenti in quelle infrastrutture che dovrebbero alimentare gran parte dell’innovazione e della crescita futura.