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Cloud: i big dell’hi-tech Usa premono sul governo. ‘Servono convenzioni internazionali per favorire il libero flusso di dati’

Stati Uniti


Google, IBM, Microsoft e altre importanti società hi-tech americane stanno facendo opera di lobby sul governo affinché gli Stati Uniti si facciano promotori di una serie di convenzioni mondiali che assicurerebbero il libero flusso delle informazioni attraverso i confini internazionali.

Queste società – tra cui anche MasterCard, Visa, Oracle, Salesforce.com e GoDaddy – stanno cercando di tirare acqua non solo al loro mulino, dicono gli osservatori, ma anche a quello della nazione.

I principi, redatti sotto l’egida del National Foreign Trade Council, sono contenuti nel documento “Promoting Cross‐Border Data Flows: Priorities for the Business Community” (Promuovere i flussi di dati transfrontalieri, le priorità per il mondo imprenditoriale), che delinea da un lato la possibilità di proibire il blocco dei dati legali ospitati su server stranieri (come nel caso di Twitter, Facebook o YouTube) e dall’altro chiede di rivedere alcune leggi specifiche per ciascun paese, incluse quelle sulla protezione dei dati, che rendono molto difficile per un’azienda fare affari in un dato paese senza avervi una presenza fisica.

 

La questione non è di secondo piano in questo momento di forte crisi finanziaria: mentre molti settori dell’economia americana stanno soffrendo, infatti, l’industria internet e dei servizi finanziari godono di buona salute. Molte aziende di questi comparti sono in utile e continuano ad assumere personale, a vantaggio dell’intera economia Usa.

Le attività internazionali di queste aziende, tuttavia, sono penalizzate sia dall’impossibilità di operare in alcuni paesi a causa della censura, sia dall’aumento dei costi operativi e di capitale causato dalle leggi che proibiscono il trasferimento dei dati al di fuori dei confini nazionali.

 

Detto questo, il documento chiede al governo americano di ottenere “l’impegno internazionale” su 7 questioni chiave:

1)    Proibire espressamente restrizioni ai flussi transfrontalieri di informazioni conformi alla legge.

2)    Proibire infrastrutture locali o mandati di investimento.

3)    Promuovere gli standard internazionali, il dialogo e le best practice.

4)    Migliorare la trasparenza e la prevedibilità delle leggi.

5)    Affrontare le questioni giuridiche e politiche che coinvolgono l’economia digitale (come ad esempio quelle inerenti alla privacy nelle diverse giurisdizioni).

6)    Ampliare gli scambi di beni, servizi e infrastrutture digitali.

7)    Garantire lo sviluppo futuro di accordi commerciali sui servizi digitali.

 

Questa lobby non è l’unica a chiedere al governo di intervenire per risolvere i problemi specifici dell’economia digitale. A giugno, un gruppo di esperti ha preso parte a un panel del Brookings Institute per discutere dell’adozione di una legge battezzata il Cloud Computing Act of 2011, che si pone come obiettivo quello di stabilire convenzioni internazionali sul trattamento giuridico dei dati.

Anche in questo ambito, infatti, le attività internazionali vengono ostacolate dal fatto che l’attribuzione della competenza nel contenzioso con paesi e imprese straniere è gestita in modo diverso in quasi tutti i paesi. L’avvento di internet e dei server distribuiti globalmente ha inoltre esacerbato la questione dei confini nazionali, ostacolando i benefici intrinseci di scalabilità e flessibilità del cloud.

Ci sono, infatti, dei paesi dove non esistono infrastrutture cloud e probabilmente non esisteranno mai, ma gli utenti di questi paesi devono poter avere la libertà di accedere alle risorse di cloud computing con un certo grado di certezza del diritto.

 

Anche gli Stati Uniti non hanno leggi adeguate, sottolineava a giugno la commissione CLOUD2 della TechAmerica Foundation, che include il gotha dell’hi-tech americano.

Per ovviare a questo deficit e aumentare la chiarezza sulle regole e i processi che utenti e fornitori di servizi cloud dovrebbero seguire in un contesto internazionale, la commissione indica quindi tre vie:

1)   Modernizzare la normativa (Electronic Communications Privacy Act), che disciplina come le forze dell’ordine accedono alle informazioni digitali alla luce dei progressi nel settore IT.

2)   Studiare l’impatto del Patriot Act e delle leggi sulla sicurezza nazionale di altri paesi sulla capacità delle imprese di implementare il cloud in un mercato globale.

3)   Far sì che il governo degli Stati Uniti assuma un ruolo guida ed avvii un dialogo attivo con le altre nazioni sui processi per il legittimo accesso dei governi ai dati memorizzati nella nuvola e sui processi per la risoluzione dei contrasti giuridici inerenti i dati.

 

Questioni, queste, che hanno stimolato comunque appetiti globali, tanto che anche l’europea OCSE ha recentemente pubblicato un documento sull’elaborazione di principi che garantiscano l’apertura di internet, la coerenza delle leggi e la promozione di flussi transfrontalieri di dati.

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