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Martin Sorrell è il presidente di WPP, il numero uno della comunicazione mondiale con un fatturato da 9,3 miliardi di sterline. WPP controlla le agenzie Grey, Ogilvy & Mather, JWT e Y&R.
In occasione del Festival internazionale della pubblicità (Cannes, 19-25 giugno), in un’intervista concessa a Les Echos, Sorrel ha parlato della grande presenza delle web company come Google, Facebook, Twitter e Yahoo!, commentando che in realtà sono società media a tutti gli effetti che si collocano accanto a quelle tradizionali come News Corp o Time Wartner.
Sorrell, che in passato aveva definito Google un ‘frenemy’ (Leggi Articolo Key4biz), ha informato che i rapporti sono migliorati: “Rimaniamo i suoi più grossi clienti, comprando 1,3 miliardi di dollari di link sponsorizzati e banner. Ma noi continuiamo a investire per contrastare la sua concorrenza e quella di Double Click”.
Nel 2007 WPP ha acquistato 24/7 Real Media e presto lancerà una nuova piattaforma per la raccolta pubblicitaria che sarà un’evoluzione 3.0 dell’attuale: molto più ricca in termini di dati e contenuti premium.
Sorrel ha dichiarato che “il gruppo gestisce un volume di 70 miliardi di dollari per i clienti ed è nostra responsabilità offrire consulenze imparziali. Google, Apple o Facebook vorrebbero che li spingessimo a investire su di loro. Molto bene. Ma noi dobbiamo prendere decisioni obiettive, è per questo che investiamo nelle nostre piattaforme. E’ un approccio molto differente rispetto a quello dei nostri concorrenti”.
Il presidente di WPP ha, comunque, detto di non considerare i social network, come Facebook o Twitter, dei concorrenti. Ma solo dei media.
“Sono molto diversi da Google. Sono reti sociali, usate per comunicare con gli amici. Il rischio, se si cerca di monetizzare con questi media introducendo un’attività commerciale, è di mostrarsi intrusivi in una relazione sociale e di vedersi respinti dai consumatori”.
Ha comunque escluso la possibilità di acquistare un social network: “Facebook sicuramente no, visto che oggi è stimato in 100 miliardi di dollari mentre la nostra arriva 16 miliardi. Ma la questione è un’altra, non possiamo rischiare di compromettere la nostra indipendenza”.
Ma come vede Sorrel il futuro dei media tradizionali di fronte all’avanzata dei new media che catturano gran parte degli investimenti pubblicitari?
“La pubblicità – ha spiegato a Les Echos – non potrà finanziare tutto. La frammentazione dei media tradizionali è troppo importante. Penso che la televisione ne uscirà meglio, puntando sugli eventi in diretta. La comunicazione esterna dovrebbe resistere, grazie all’evoluzione tecnologica. Radio e cinema resteranno sotto pressione. La situazione peggiore riguarda la stampa locale. Anche se qui bisognerebbe chiedersi se le edizioni digitali vanno considerate come ‘stampa’”.
“Ritengo che siano tre gli elementi importanti: i consumatori devono pagare per i contenuti e l’industria deve continuare a consolidarsi. Infine, se si considera che i giornalisti professionisti sono necessari, allora bisognerà farsi sovvenzionare dallo Stato o da ricchi privati. In Australia, il governo ha elargito 200 milioni di dollari ai canali gratuiti svantaggiati dalle offerte provenienti dal digitale. Nel Regno Unito, i fratelli Barclay hanno acquistato il Telegraph, negli Stati Uniti il Tycoon Sam Zell ha rilevato il Chicago Tribune…”.
Per quanto riguarda il futuro del mercato pubblicitario, Sorrel ha sottolineato che ci sono molte incertezze.
“La paura che la crisi di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna possa estendersi nella zona euro; la capacità della amministrazione americana di ridurre il deficit; il rincaro dei prezzi delle materie prime; il terribile impatto degli avvenimenti che hanno riguardato il Giappone; la situazione in Medio-Oriente; e infine la politica di ‘easy money’ della Federal Reserve che preoccupa molti mercati. Tenuto conto di questo, possiamo dire che la pubblicità ha resistito molto bene e noi siamo in linea con le nostre previsioni. La nostra agenzia Group M ha rivisto al ribasso le stime per il Regno Unito, ma questo Paese non rappresenta che il 10% delle nostre entrate”.