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Potrebbe non essere Facebook il primo social network a quotarsi in Borsa: il suo omologo cinese Renren vuole infatti battere tutti sul tempo e lanciare l’Ipo negli Usa entro la fine di quest’anno.
Lo rivela il Financial Times citando delle fonti anonime secondo cui l’azienda – che rivendica 160 milioni di iscritti al servizio di social network – spera di raccogliere dall’introduzione in Borsa qualcosa come 500 milioni di dollari (366 milioni di euro). Tra gli advisor dell’operazione, il quotidiano britannico cita Deutsche Bank, Morgan Stanley e Credit Suisse.
Renren, che molte altre web company cinesi ricalca i modelli di business di quelle americane adattandoli alla realtà locale, non pubblica i risultati finanziari, ma l’azienda ha assicurato che le entrate pubblicitarie sono più che raddoppiate dal 2009 al 2010. La sua quotazione è, dunque, molto attesa dagli investitori, in attesa dell’Ipo di Facebook che nel frattempo, ha raggiunto una valorizzazione di circa 50 miliardi di dollari.
Renren, che in cinese vuol dire ‘tutti’, è stata fondata nel 2005 col nome di Xiaonei, un anno dopo Facebook, ed è il social network più popolare in Cina, soprattutto perché il concorrente americano è sottoposto a una ferrea censura da parte del Governo di Pechino che, anzi, secondo quanto riferisce il Wall Street Journal, ha deciso di rafforzare i controlli sulla rete, per evitare che i venti della rivoluzione nordafricana contagino anche il Paese dopo che domenica nel centro di Shanghai un uomo è stato arrestato nell’ambito di una manifestazione antigovernativa – ‘The Jasmine Revolution‘ – organizzata in 11 città proprio grazie alle reti sociali. Immediatamente bloccate le ricerche comprendenti le parole ‘Jasmine’, ‘Revolution’, ‘Medio Oriente’ e tutte quelle in qualche modo collegate agli eventi che stanno scuotendo i paesi mediorientali e magrebini. La ‘grande muraglia’ digitale, il sofisticato sistema di censura del web innalzato dalla Cina, è insomma a pieno regime, mentre le autorità governative hanno respinto al mittente le accuse del Segretario di Stato americano Hillary Clinton, dicendosi “nient’affatto preoccupate” per i riferimenti alla forte censura praticata nel Paese sulla rete internet.
Nel frattempo, anche Spotify, uno dei servizi musicali in streaming di maggior successo, è impegnato a raccogliere fondi da un gruppo di investitori che include anche la russa Digital Sky Technologies Global, che ha finanziato anche Facebook, Groupon e Zynga. La transazione, non ancora finalizzata, dovrebbe portare nelle casse della società anglo-svedese circa 100 milioni di dollari, facendo lievitare la sua valorizzazione a quota 1 miliardo di dollari.
Il servizio musicale ‘sponsorizzato’ offerto da Spotify – creata nel 2006 da Daniel Ek e Martin Lorentzon – è utilizzato in Europa da oltre 10 milioni di persone, che possono accedere a un catalogo gratuito di 10 milioni di brani. Gli utenti a pagamento – quelli cioè che non vogliono sorbirsi la pubblicità per usufruire gratuitamente del servizio – sono però soltanto poco più di un milione.
Le preoccupazioni sulla debolezza del business model e sui compensi agli artisti e alle case discografiche hanno tra l’altro bloccato finora il lancio del servizio negli Usa. Secondo gli ultimi rapporti degli auditors, Spotify ha registrato nel 2009 perdite per circa 16 milioni di sterline, su un fatturato di 11,3 milioni. Anche Spotify, nonostante i suoi ambiziosi piani di crescita, va, dunque, ad alimentare i timori di una nuova bolla speculativa nel settore hi-tech.