G20: quanto contribuisce l’iPhone Apple all’aumento del deficit commerciale degli Usa verso la Cina?

di Alessandra Talarico |

Due ricercatori sostengono che, nonostante importare negli Usa un iPhone prodotto in Cina costi 179 dollari, il peso della Cina è molto limitato, pari a circa 6,50 dollari per l'assemblaggio finale.

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Nel 2009, l’iPhone – prodotto di punta della Apple – sarebbe stato responsabile dello 0,8% dello squilibrio commerciale americano nei confronti della Cina. E’ quanto emerge da un documento di lavoro redatto da Yuquig Xing e Neal Detert e che scompone la catena di valore di un iPhone.

In occasione del G20, il consesso delle 20 maggiori economie mondiali, che si terrà questo fine settimana a Parigi, la presidenza francese di turno  chiederà un nuovo sistema monetario globale “fondato su più valute internazionali” per ‘ridurre la necessità di accumulo di riserve’ di scambio, compresi quelli dei mercati emergenti, per ‘meglio regolare i flussi internazionali di capitali’.

 

Sullo sfondo, si pone chiaramente la questione del surplus commerciale cinese, che in realtà a gennaio è sceso al livello più basso da nove mesi a questa parte, attestandosi a 6,5 miliardi di dollari contro attese di 10,7 miliardi.  Nel 2010, il disavanzo commerciale degli Usa è stato di 497,8 miliardi di dollari e circa 55% sarebbe imputabile agli squilibri degli scambi commerciali americani nei confronti della Cina. Nello specifico, a dicembre, il deficit nei confronti della Cina è sceso a 20,68 miliardi di dollari, dai 25,63 miliardi di dollari di novembre. Tuttavia, il calo mensile non annulla il rosso annuale di 273,07 miliardi di dollari, il più alto di sempre.

La soluzione americana a questo problema è molto semplice: sarebbe sufficiente aggiustare il tasso di cambio cinese, ossia rivalutare lo yuan nei confronti del dollaro. Ma in realtà, la situazione è molto complessa.

 

Tornando al ruolo dell’iPhone, secondo le statistiche delle dogane americane, importare un dispositivo prodotto in Cina costa 178,96 dollari ma, si chiedono i due ricercatori, la Cina che vantaggi ne ha?

Anche se gli smartphone Apple vengono assemblati nelle fabbriche cinesi, una gran parte dei componenti non è prodotta in Cina.  Xing e Detert hanno quindi scomposto per nazionalità il valore di un iPhone: le memorie flash (24 dollari) e gli schermi (35 dollari) sono prodotti in Giappone, il processore e i componenti associati (23 dollari) in Corea, i chip GPS, la fotocamere e i componenti Wi-Fi (30 dollari) in Germania, il Bluetooth, i componenti audio e 3G (12 dollari) negli Stati Uniti. Oltre a questi componenti, bisogna quindi considerare le materie plastiche, l’alluminio, le licenze e i brevetti software, per circa 48 dollari.

In totale, dunque, nel valore di un iPhone, il peso della Cina è molto limitato, pari a circa 6,50 dollari per l’assemblaggio finale.

 

Anche se le statistiche doganali – che non tengono conto del valore aggiunto per nazionalità ma solo del valore finale – segnalano costi di importazione di 179 dollari, l’apparecchio integra il 34% di prodotti giapponesi, il 17% di prodotti tedeschi, il 13% di prodotti coreani e il 6% di prodotti americani. La ‘creazione di valore’ della Cina in un iPhone è dunque soltanto del 3,6%.

In effetti, sottolineano i due ricercatori, l’impennata del disavanzo commerciale americano nei confronti della Cina è stato accompagnato da una riduzione del deficit verso il Giappone, passato dal 40% degli anni 80 all’attuale 10%.

 

Si comprendono meglio, a questo punto, i discorsi di alcune società americane, come Apple, che non vogliono una rivalutazione troppo rapida della moneta cinese. Se la Cina, infatti, rivalutasse troppo rapidamente lo yuan, l’effetto a breve termine sarebbe negativo per i margini il gruppo di Cupertino, a meno di non alzare il prezzo dell’iPhone, dal momento che i costi di produzione in Cina crescerebbero. Ma, alla fine, la grande sconfitta sarebbe proprio l’industria cinese che rischia di patire anch’essa del fenomeno della delocalizzazione verso paesi più ‘convenienti’ in termini del costo del lavoro, come la Malesia.

L’altra faccia della medaglia, sarebbe comunque la nascita di una classe media meglio remunerata e l’innalzamento della qualità dei prodotti cinesi a più forte valore aggiunto (nei campi, ad esempio, dell’aeronautica e dell’elettronica).

 

A questo punto, il valzer ricomincerebbe, con gli Usa alle prese con l’innalzamento del deficit commerciale nei confronti di altri paesi asiatici in grado di offrire manodopera a basso prezzo.

 

“Non ci sono soluzioni miracolose”, concludono i due ricercatori, secondo cui la risoluzione dei grandi squilibri internazionali non potrà limitarsi a qualche aggiustamento dei tassi di cambio ma necessiterà della ridefinizione degli attuali modelli di sviluppo economico, “fondati su un peso eccessivo del consumo o troppo dipendenti dalla domanda estera”.

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