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Le nuove tecnologie, che sulla carta ci aiutano a essere sempre connessi e a comunicare con chiunque in qualunque momento, rappresentano un vantaggio o, di contro, ci isolano sempre più dagli altri? Analizzando le abitudini di molti appassionati di comunicazioni digitali, ci si può rendere conto che sono tantissime le persone che, come primo pensiero al risveglio, accendono il Pc o il dispositivo mobile per controllare la posta elettronica e che ripetono quest’azione varie volte nel corso della giornata, senza contare gli accessi ai vari profili sui diversi social network, abitudine sempre più consolidata per milioni di utenti.
Siamo diventati, insomma, ipercomunicativi, controlliamo la posta e il profilo Facebook in maniera ‘spaventata’, quasi ‘isterica’ e tutto questo può essere considerato il sintomo più evidente di una ‘moderna follia’. E’ questo l’autorevole parere della sociologa del MIT Sherry Turkle che, nel suo nuovo libro Alone Together (Soli insieme) analizza l’ambivalenza delle nuove tecnologie quando queste si propongono quale “architetto della nostra intimità”.
La Turkle ha analizzato i casi di decine di giovani che, nonostante il frequente utilizzo di questi nuovi strumenti, non hanno risolto i loro problemi, che si sono, anzi, accresciuti fino a spingerli al suicidio e parla nel suo libro di ragazzi delle superiori che hanno paura di fare una telefonata o di bambini delle elementari che non riescono ad affrontare la ‘morte’ del loro animaletto virtuale. La sociologa denuncia, in sostanza, “l’impegno superficiale implicito in questi oggetti inanimati”, che utilizziamo sempre più frequentemente per convincerci che “anche quando siamo soli stiamo insieme a qualcuno”. Strumenti che, anche quando siamo in compagnia, “ci mettono costantemente nella condizione di sentirci soli” e che contribuiscono a creare una vera “tempesta di confusione” su quello che è davvero importante nelle relazioni umane.
Certo, non bisogna essere estremisti: la tecnologia, malgrado tutti i suoi difetti, rende la vita più facile e, permettendoci di comunicare con più persone in minor tempo e semplificando le nostre conversazioni, può anche avere un ruolo terapeutico. La tecnologia, però, sa essere anche molto seducente e riesce a rendere ‘noiose’ le comunicazioni tradizionali, faccia a faccia.
Spiega la Turkle che con le nuove tecnologie di comunicazione “l’adrenalina è continua…ad ogni connessione riceviamo una piccola spinta di dopamina”, cosa che non avviene nell’intimità del faccia a faccia. “Quando siamo online – aggiunge – possiamo ignorare i sentimenti degli altri. Scrivendo un messaggio, possiamo evitare il contatto visivo con la persona che lo riceve”.
Stiamo, dunque, avviandoci verso la catastrofe sociale? Certo che no, minimizza la Tukle, che però invita a riflettere sul modo in cui vogliamo vivere con queste tecnologie che hanno trasformato le nostre norme sociali:“…non dobbiamo sacrificare la società per le applicazioni che vanno per la maggiore”, mette in guardia.
“In questa cultura della connettività permanente, non riusciamo veramente sapere se abbiamo o meno l’attenzione degli altri” ha spiegato ancora la Turkle, che nel suo libro riporta molti estratti di conversazioni con i suoi pazienti.
Una delle constatazioni più sorprendenti, secondo Peter Dizikes del servizio stampa del MIT, riguarda il rovesciamento dei ruoli all’interno delle famiglie: molti giovani, che pure utilizzano massicciamente i dispositivi mobili, non sono contenti quando a farlo sono i genitori, e lamentano un deficit di attenzione nei loro confronti quando sono i genitori ad attardarsi troppo al loro BlackBerry.
Ma, ora, che questo trend sembra averci sovrastato, siamo ancora in tempo a cambiare abitudini? Sherry Turkle non evoca una ‘rivoluzione’ alla fine del suo libro, ma suggerisce di rifarsi alle vecchie ‘buone maniere’: parlare ai colleghi durante la pausa invece che inviarsi delle email a pochi metri di distanza, spegnere il telefonino durante i pasti con la famiglia, non utilizzarlo quando ci si trova in macchina o in compagnia.
Si tratta di accorgimenti di non sempre facile applicazione, ma necessari se non vogliamo cedere il controllo delle nostre vite alla tecnologia.
Non tutti, però, sono d’accordo con la sociologa del MIT: secondo il filosofo statunitense David Weinberger – che si è spesso focalizzato su come internet ha cambiato le relazioni sociali – la Turkle “interpreta come malattie dei sintomi che molti considerano come dei segnali di una buona salute sociale”.
L’enorme numero di sms scambiati tra adolescenti, afferma Weinberger, dovrebbero piuttosto essere interpretati come il segno che essi sono socialmente più connessi che mai, non come la prova che i giovani hanno bisogno di essere costantemente rassicurati. Dove la Turkle vede un “rifugio nel paradiso protettore di internet per evitare emozioni forti, andrebbe letta invece l’espressione di una soluzione ragionevole per far fronte a un momento difficile”, aggiunge lo studioso americano.
Pur esprimendo apprezzamento e riguardo per il lavoro della sociologa del MIT, Weinberger sottolinea come “il suo sguardo sembra difforme dal modello psicologico che cerca di imprimere sull’argomento”, poichè i sintomi elencati sembrano piuttosto atipici.
“L’adolescente che invia dozzine di sms al giorno alla madre o quello che rifiuta di fare telefonate perche mettere fine a una conversazione gli dà l’impressione di essere rifiutato, sono esempi drammatici, ma non sono necessariamente prove di una patologia generalizzata”, ha aggiunto.
Ad essere patologico, in sostanza, sarebbe di più il voler forzatamente sostenere che la modernità ci allontana dai vecchi valori, dal momento che “i cambiamenti indotti dalle nuove tecnologie mettono in discussione fino ai quadri concettuali che abbiamo a diposizione per comprendere questi cambiamenti”.
Il tema del rapporto tra i giovani e i nuovi mezzi di comunicazione è stato al centro anche del messaggio che Papa Benedetto XVI ha lanciato in occasione della 45esima Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali e dedicato al tema “Verità, annuncio e autenticità di vita nell’era digitale”.
Benedetto XVI paragona la trasformazione in atto nel campo delle comunicazioni alla rivoluzione industriale, un movimento, cioè, in grado di guidare “il flusso di grandi mutamenti culturali e sociali” preannunciando una “vasta trasformazione culturale” in grado di generare “un nuovo modo di apprendere e di pensare, con inedite opportunità di stabilire relazioni e di costruire comunione”.
“Come ogni altro frutto dell’ingegno umano, le nuove tecnologie della comunicazione chiedono di essere poste al servizio del bene integrale della persona e dell’umanità intera. Se usate saggiamente – afferma ancora il Pontefice – esse possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l’aspirazione più profonda dell’essere umano”.
La rinnovata valutazione del comunicare, “considerato anzitutto come dialogo, scambio, solidarietà e creazione di relazioni positive”, ha però anche il suo rovescio, rappresentato dalla “parzialità dell’interazione, dalla tendenza a comunicare solo alcune parti del proprio mondo interiore, dal rischio di cadere in una sorta di costruzione dell’immagine di sé, che può indulgere all’autocompiacimento”.
L’avvertimento è rivolto, in particolare, ai più giovani, che sono sempre più coinvolti nell’arena digitale creata dai cosiddetti social network che, “…aiutandoli a stabilire nuove forme di relazione interpersonale, influisce sulla percezione di sé e pone quindi, inevitabilmente, la questione non solo della correttezza del proprio agire, ma anche dell’autenticità del proprio essere”.
Ben venga, dunque, la presenza in queste piazze virtuali, purché sia dettata dalla volontà di ricercare un “incontro personale con l’altro”, ma non se essa rappresenta il rifugio “in una sorta di mondo parallelo, o l’eccessiva esposizione al mondo virtuale”.
Leggi il messaggio del Santo Padre ‘Verità, annuncio e autenticità di vita nell’era digitale‘