Wikileaks. Usa sapevano che c’era la Cina dietro gli attacchi a Google. Rodotà: ‘Reazione politica segno di inconsapevolezza culturale’

di Alessandra Talarico |

Dai documenti pubblicati sul sito, emergerebbe che gli Usa erano a conoscenza del fatto che dal 2002 la Cina penetrava nelle reti informatiche americane e degli alleati. Ma, nota il NYT, nessuna denuncia ufficiale contro Pechino.

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“Le reazioni della politica di fronte al fenomeno di Wikileaks, improntate alla sorpresa e al biasimo per la diffusione dei documenti segreti dimostra, ancora una volta, l’inconsapevolezza culturale della politica. Italiana e non’. E’ quanto ha affermato stamani  il giurista e costituzionalista Stefano Rodotà, intervenendo all’Internet Governance Forum in merito all’atteggiamento della politica internazionale sul nuovo scandalo diplomatico innescato dal sito di Julian Assange.

 

L’ex Garante privacy ha sottolineato che  le scoperte scientifiche e tecnologiche hanno sempre “sconvolto i preesistenti sistemi di potere” ed è quindi “naturale che ciò accada anche ora”.

Le reazioni della politica, ha notato ancora Rodotà, sembrano invece “tutte improntate a rispondere ad un’esigenza di sicurezza che contrasta con la gelosa difesa del diritto di libertà invocato dalla comunità di internet. Non a caso in Italia il ministro degli Affari Esteri Franco Frattini ha parlato di un ‘nuovo 11 settembre”.

 

Continuano, insomma, a essere palesate senza tregua le prese di posizione sull’ultimo ‘attacco al potere’ di Wikileaks, che – come era prevedibile – ha spinto gli Usa ad accelerare la revisione delle procedure per la gestione dei documenti riservati e la magistratura ad aprire un’indagine penale sulla diffusione di documenti riservati.

“La recente irresponsabile divulgazione da parte di Wikileaks di centinaia di migliaia di cablogrammi diplomatici è risultata in un danno significativo per la nostra sicurezza nazionale”, ha affermato il direttore dell’Ufficio per la Gestione e il Bilancio Jacob Lew. “Qualsiasi incapacità da parte delle agenzie di salvaguardare le informazioni riservate è  inaccettabile e non sarà tollerata”.

 

E così, mentre il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi afferma di non guardare “…a quello che rivelano funzionari di terzo o quarto livello e che viene poi riportato da giornali di sinistra”, e il suo avvocato Niccolò Ghedini parla di “banale gossip” e invoca l’intervento dell’Autorità giudiziaria, c’è invece chi difende a spada tratta l’operato di Wikileaks e la pubblicazione sui principali organi di stampa mondiale delle rivelazioni del sito, come il direttore del Guardian Alan Rusbridger, secondo cui “…non è compito dei media preoccuparsi dell’imbarazzo di leader mondiali beccati a dire cose diverse in pubblico e in privato, specialmente nel caso di alcuni di questi stati del Golfo che non hanno una stampa libera”.

 

Per il presidente  dell’Alcei, l’associazione per la libertà nella comunicazione elettronica interattiva, Andrea Monti, “Wikileaks è il perfetto esempio di cosa accade quando non si governa dal punto di vista culturale la circolazione delle informazioni. In questa fuga di notizie ci vedo un pericolo serio e reale rispetto anche alle prime affermazioni dei governi, compreso il nostro – osserva – Non vorrei venisse usata come scusa per imporre nuove censure’.

 

Sul fronte dei contrari si schiera invece il filosofo Bernard-Henri Levy, che critica la stessa mission del sito, che è quella di non nascondere nulla. Una filosofia non apprezzabile per due motivi:  “Uno – precisa – perché l’informazione non è mai grezza, ma va trattata. Due, perché non sono sicuro che bisogna rientrare per forza in un universo di trasparenza assoluta, in cui non ci sono più segreti’.

“Pensare che la diplomazia mondiale debba diventare uno spazio aperto è totalmente sbagliato”, ha concluso il filosofo.

 

Tra le rivelazioni fatte dal sito, anche quella della violazione, da parte della Cina, dei server di Google all’inizio di quest’anno: non era proprio un ‘segreto’, ma Wikileaks corrobora quello che era stato definito solo un ‘sospetto’ del gruppo di Mountain View pubblicando un documento di gennaio in cui l’ambasciata Usa a Pechino cita una ‘fonte cinese’ che incolpa il regime comunista dell’attacco a Google. Il fatto ‘nuovo’ è che dai documenti ripresi dal New York Times si evince che la violazione dei server Google si iscrive nel quadro “di una vasta campagna di sabotaggio informatico organizzata da alcuni funzionari, esperti in sicurezza e pirati informatici reclutati dal Governo cinese”.

 

I servizi cinesi avrebbero ugualmente penetrato le reti informatiche americane e dei loro alleati, compresa quella del Dalai Lama, dal 2002. Gli Usa, quindi, ne sarebbero stati a conoscenza e in alcuni casi hanno evocato presunti abusi, ma non hanno mai denunciato pubblicamente il Governo di Pechino.
 

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