Privacy: fuga in massa da RapLeaf, il sito che rivendeva le informazioni personali raccolte su Facebook

di Alessandra Talarico |

La società realizzava veri e propri dossier sugli utenti, ottenuti comparando le informazioni reperite sui social network con quelle fornite da siti web che chiedevano la registrazione degli utenti.

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RapLeaf

Migliaia di persone hanno deciso di cancellare il loro profilo dal sito RapLeaf dopo che il Wall Street Journal ha reso noto che la società raccoglieva e rivendeva le informazioni personali – nomi, indirizzi email, numeri di telefono e di conto corrente, riuniti in veri e propri ‘dossier’ – reperite dai social network come Facebook e MySpace a diverse società di marketing.
La fuga in massa dal sito, accusato di rivendere i dossier degli utenti ai suoi clienti e partner – tra cui diversi politici in cerca di consenso – ha causato dei rallentamenti nel servizio di cancellazione, ma la società ha assicurato che entro 48 ore dalla richiesta tutte le informazioni personali saranno eliminate dal sito.
 

I dossier, realizzati collegando le informazioni ottenute dalle app di Facebook a quelle contenute nei propri database, sarebbero stati rivenduti da RapLeaf ad almeno una dozzina di aziende. La società si è difesa sostenendo che la trasmissione sarebbe stata del tutto fortuita: “Non l’abbiamo fatto intenzionalmente”, avrebbe spiegato il vicepresidente della divisione business development, Joel Jewitt.
 

I dirigenti di RapLeaf hanno affermato che la loro attività si basa sull’offerta di contenuti e pubblicità pertinenti ai gusti degli utenti e “in grado di portare vantaggi ai consumatori”. I dati arrivano nei database della società direttamente da alcuni siti (Pingg.com, About.com e  TwitPic.com,) che richiedevano la registrazione e inviavano, poi, queste informazioni alla RapLeaf che, quindi, installava un ‘cookie’ contenente i dettagli personali – nome, cognome, indirizzo email e ‘fisico’ – sul Pc dell’utente. In alcuni casi, i dati sono stati rivenduti a società di advertising partner di RapLeaf.

 

“Il nostro obiettivo – ha sottolineato il Ceo Auren Hoffman – è quello di costruire un mondo più personalizzabile e migliore per le persone”.

 

Secondo il WSJ, i dossier potevano includere anche il reddito familiare, il numero di figli, la loro età, la fede politica e religiosa, le abitudini (fumatore, vegetariano, appassionato di scommesse o film porno, ecc.). Informazioni suddivise in oltre 400 categorie.

 Tutto questo, nonostante il sito indicasse chiaramente di non raccogliere informazioni relative a “bambini, salute, preferenze sessuali, conti bancari o convinzioni religiose”.

Fondata nel 2006 da Mr Hoffman, la RapLeaf è partita offrendo servizi di analisi della reputazione online grazie a fondi per 1 milione di dollari stanziati dal cofondatore di PayPal Peter Thiel (che ha finanziato anche Facebook). Subito dopo, la società ha iniziato a raccogliere informazioni dai social network per costruire un motore di ricerca delle persone, comparando i profili delle reti sociali con gli indirizzi email. Nel 2009 aveva già indicizzato più di 600 milioni di indirizzi email.

Tutti dati pubblici, si giustifica l’azienda, che sostiene di non aver mai condiviso né venduto indirizzi email. Alle società, però, che avevano già l’indirizzo email di un utente internet, RapLeaf era in grado di fornire nomi e altri dettagli personali. A caro prezzo ovviamente e con la convinzione di offrire un servizio utile, ma, evidentemente, non sono stati in molti a gradire il fatto che la società facesse quattrini sulle loro informazioni private, anche molto dettagliate.
 

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