Italia
Ha cento volte ragione il Professor Brunetta, lo chiamo così invece che Ministro per le ragioni che credo si capiranno più avanti in questa nota, quando ha denunciato pochi giorni fa, con la giusta forza, che la società civile italiana non ha fatto dell’innovazione un suo elemento di forza.
Ciò accade per due motivi. In primo luogo perché l’innovazione, come scriveva Russel, non è connaturata con l’uomo che tende a conservare abitudini e schemi mentali. L’innovazione è sempre stata una spinta proveniente da parti marginali della società che riuscivano a farsi classi dirigenti. Questo non è accaduto in Italia con la cosiddetta Seconda Repubblica. A parole sì, nei fatti no. Il Centro-destra, non solo nelle espressioni della Lega o di alcune parti di ex An, si rivolge principalmente alla pancia della gente. Lo stesso vale per il Centro-sinistra che ha assunto gli stessi modelli paradigmatici. Certamente questo non vale per tutti, ma altrettanto certamente vale per le posizioni dominanti.
Entrambe pensano in termini di breve periodo. Entrambe per costruire le policy hanno scelto come interlocutrici le corporazioni, pubbliche o private che siano. Entrambe le hanno scambiate per opinione pubblica e hanno scambiato il circuito mediale, stampa-televisione, come il luogo in cui markettizzare i loro continui proclami. E i media li enfatizzano ancora di più pensando così di recuperare audience. La stampa al contrario continua a perdere copie nonostante i titoli strillati, i mostri più o meno inventati, il voyeurismo eletto a polemica politica. La televisione ha moltiplicato i suoi canali ma le sue corazzate perdono peso e le audience più avvertite si distribuiscono ormai sui canali digitali terrestri e satellitari che offrono contenuti di qualità. E c’è ancora, in entrambi gli schieramenti, nonostante l’evidenza della storia recente dica il contrario, che le comparsate in televisione producano consenso.
Le corporazioni sono quelle indicate da Brunetta: la sanità, che non utilizza i certificati online, la giustizia che non usa documenti elettronici, le categorie professionali, giornalisti in testa, che rifiutano la posta elettronica certificata e l’elenco potrebbe continuare a dismisura con i sindacati e i partiti che proteggono gerarchie, mansioni e professioni cancellate dalle nuove tecnologie.
Al rifiuto dell’innovazione si potrebbe aggiungere il rifiuto, in termini di investimento, della cultura e dei servizi, pubblici e privati, come motore di sviluppo, come unica possibilità di far crescere produttività e con essa il PIL del Paese. Permane l’attenzione sull’industria manifatturiera che deve certamente essere mantenuta ma in un quadro più equilibrato di spostamento della stessa sulle attività a più valore aggiunto ed in una logica sempre più di servizi al consumatore.
È un rifiuto che viene da lontano, la storia industriale non solo italiana è piena di queste miopie che portano a conservare le preesistenze oltre ogni ragionevolezza e lucidità di vision.
La tendenza a replicare paradigmi sociali-tecnici-economici preesistenti dà luogo, poi, nel nostro Paese ad una competitività fra aree territoriali che al contrario dovrebbero capire come coordinarsi per affrontare la sfida delle aree territoriali di altri paesi, all’interno stesso dell’Unione Europea. Per cui Milano pensa a investire in nuovi studi cinematografici e Roma a raddoppiare i circuiti italiani di Formula 1.
È sempre l’Italia delle corporazioni che difendono privilegi anacronistici e dei Comuni che si combattono fra loro. E intanto Carlo VIII spadroneggia: sono sparite le grandi imprese dopo privatizzazioni su cui ci sarebbe molto da dire; le liberalizzazioni hanno portato le nostre tariffe elettriche, telefoniche, bancarie e assicurative oltre la media dei paesi concorrenti; la piccola e media industria soffre lasciata a sé stessa e spesso muore per eccesso di crediti nei confronti della pubblica amministrazione e di una pratica di ritardati pagamenti che si è diffusa anche nei soggetti privati più forti. Riesce a resistere faticosamente quella parte di medie imprese che conta il suo fatturato principalmente all’estero.
Per questa ragione stenta a crescere la nostra industria informatica e, come ha detto Bernabè, rimane scarso l’utilizzo di banda larga esistente mentre tutti parlano, giustamente, di NGN. Se non cresce l’informatica, se non cresce l’uso di banda, non cresce la produttività, non cresce la competitività, non cresce il PIL. Se la Pubblica Amministrazione non fa da apripista in questo settore, per il peso che essa ha nell’economia e nelle pratiche di consumo, non fa crescere il settore privato o, secondo i casi, non lo costringe a cambiare.
Da qui il giudizio verso la politica di bilancio che va elogiata, mai abbastanza per quanto mi riguarda, per il rigore con cui si esprime, ma va criticata per l’incapacità di capire le direzione verso cui indirizzare le ridotte risorse pubbliche e verificare i risultati. Se a ciò si aggiungono le resistenze e le vischiosità delle gerarchie della Pubblica Amministrazione che nella migliore delle ipotesi, quando interiorizzano nuove tecnologie, nella maggiorana dei casi, mantengono vecchio e nuovo nelle loro procedure, il circolo perverso si chiude con un settore privato che si adegua pigramente alla situazione, avendo esso stesso difficoltà a cambiare. E spesso, nel caso di cambiamento, le resistenze delle professioni e delle mansioni che resistono al nuovo, vengono protette da partiti, sindacati e media.
A costo di essere qualunquista si deve dire che non si vede un perno politico o anche solo sociale su cui poggiare questo sforzo che l’Italia è costretta a fare per recuperare punti di PIL e di competitività che da anni ormai ha perso nei confronti degli altri paesi europei, perdendo così la possibilità di attingere alle energie giovanili e femminili palesemente sotto occupate nel nostro Paese. Negli anni ’70 la programmazione, tanto vituperata e osteggiata dall’estrema destra e dall’estrema sinistra, dette non solo un progetto al Paese, ma costruì un opinione pubblica favorevole al progetto. Forse gli obiettivi che furono definiti non erano completamente corretti. Forse gli strumenti utilizzati non erano quelli giusti. Ma certamente l’Italia ha bisogno di un Progetto Paese, che tenga conto di quanto profondamente il mondo è cambiato, di quanto gli strumenti si sono fatti più complessi. Ma di quanto tutto ciò sia necessario per ricollocarci in uno scenario che i Paesi dell’estremo oriente hanno già profondamente cambiato, e che quelli della sponda africana e medio orientale del Mediterraneo sono destinati a cambiare ulteriormente.
Sembra strano ma l’indice di tutte queste carenze o cecità è la superficialità con cui sono accolti dai decisori politici i temi dell’informatizzazione, della cultura, dei servizi. E di come non si comprenda, e non è certo il caso del Prof Brunetta, di quanto ciò che accade nella Pubblica Amministrazione sia decisivo per il Paese tutto.
Che fare? Per tutto ciò servirebbe la politica, la buona politica.
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