La libertà su internet: il modello economico delle attività sulla Rete

di di Carlo Alberto Carnevale Maffè (Scuola di Direzione Aziendale - Università Bocconi) |

Italia


Carlo Alberto Carnevale Maffe

Pubblichiamo di seguito l’intervento di Carlo Alberto Carnevale Maffè (Scuola di Direzione Aziendale – Università Bocconi) al Convegno ‘La libertà su internet’ organizzato dalla Fondazione Piero Calamandrei (Roma, 13 ottobre 2010).

Premessa: l’attuale modello economico del web è distorsivo e asimmetrico

Se il web deve essere qualcosa di più che un Paese dei Balocchi per adolescenti garruli e loquaci, dove P2P e video fanno il 74% del traffico del 2010, allora il suo modello economico dovrà darsi una bella regolata.
Così com’è, funziona in maniera asimmetrica e distorsiva, e polarizza il valore economico a Ovest, verso gli USA, e a Est, verso la Cina e l’India, lasciando alla vecchia Europa solo le briciole. E all’Italia, le briciole dell’Europa.
Oggi l’ideologia pseudoeconomica dominante vuole una “Free Internet“, che vuol dire sia libera sia gratuita. Ma che in questa configurazione finisce per significare irresponsabile, extralegale, sussidiata, oligopolizzante – quando non monopolizzante – a causa delle dinamiche dei mercati che la sostengono tuttora, come la pubblicità e il software, che mostrano chiare tendenze alla concentrazione oligopolistica.
Il web non sarà mai sede di vere libertà finche non avrà piena autonomia economica. Oggi si regge economicamente solo grazie al supporto di mercati adiacenti: mancando ancora di solide ragioni di scambio proprie, viene sussidiato dai proventi per l’accesso e da un po’ di pubblicità. Il primo è una commodity iperregolata e con margini molto bassi. La seconda è un mercato ancora piccolo e per di più asintotico. In compenso i meccanismi di scambio sul web sono tuttora esposti alla pirateria e all’opportunismo, sul lato domanda, e all’assenza di garanzie sul livelli di servizio, al concetto di best effort che significa no effort at all, sul lato offerta.
Internet deve essere un mercato con regole migliori, perché altrimenti attrae i peggiori, con un perverso meccanismo di adverse selection.
Deve essere un mercato dove possiamo lasciar andare i nostri figli serenamente. Solo così potremo creare le condizioni grazie alle quali la gente voti con le dita, scegliendo i servizi secondo le proprie preferenze ma a fronte di condizioni di servizio certe e di costi altrettanto certi, invece che di un surrettizio sussidio, tornando ad utilizzare il prezzo come fondamentale indicatore di libertà economica.
È molto probabile che prosegua il trend che si sta registrando, ovvero che i contesti sicuri, ordinati, disciplinati e a qualità garantita, come gli App Store, i Nokia Ovi e gli Android Market attraggano più traffico e quindi più investimenti. Contesti in cui per entrare devono essere qualificati sia i clienti sia i fornitori, dove non c’è significativa presenza della pirateria perché c’è un sistema collettivo di controllo e di coercizione legittima, fondamento di ogni istituzione pubblica.
Analizziamo quindi il modello economico a tendere secondo tre prospettive:
– Infrastruttura che diventa istituzione: wireless – meglio e prima che wired – a qualità – non solo velocità – garantita, e universale per diritto, qui inteso come universal service.
– Offerta: qualificata e certificata, responsabile e accountable.
– Domanda: autenticata e universale per dovere di cittadinanza, qui inteso come universal obligation.

Internet: da infrastruttura a istituzione

Parliamo dunque non solo dell’internet dei diritti, dove tutti invocano un’improbabile libertà assoluta ma nessuno sembra disposto ad un impegno economico per avere almeno una libertà relativa e sotto la tutela della legge. Parliamo anche dell’internet dei doveri, oltre il web dell’illegalità, verso una Internet istituzione di mercato.
Internet deve diventare nuova istituzione, sistema operativo sociale tanto quanto lo sono stati il diritto pubblico e il diritto privato.
Dal punto di vista economico, Internet è definibile come una piattaforma di scambi multilaterali di esternalità informative, siano esse positive come quelle degli standard interoperabili, oppure negative, come quelle dell’affollamento di traffico e dei contenuti-spazzatura.
Ha modificato profondamente i fattori di scarsità nei mercati di beni informativi, spostando i fattori di scarsità dalla produzione e distribuzione di contenuti, all’attenzione umana, fattore scarso strutturale.
Con il sussidio (gratuità) dei servizi si è generato un eccesso di domanda degli stessi, che non riesce ad essere riequilibrata dal fattore prezzo, fattore educativo fondamentale della domanda stessa.
Con l’obiettivo di diventare istituzione di mercato, Internet deve quindi confrontarsi con:

a) un modello di architettura tecnologica
b) un sistema di gestione delle scarsità economiche.

Per far questo deve superare un mito e liberarsi da una ideologia potenzialmente fuorviante. Il mito è quello della velocità, a scapito di latenza, ubiquità, permanenza e sicurezza. L’ideologia è quella della network neutrality, che ha un suo fondamento tecnologico ma viene spesso predicata senza tener conto delle sue reali implicazioni economiche.
Quale architettura tecnologica è più adatta a supportare l’evoluzione in senso istituzionale di Internet, e di conseguenza favorire lo sviluppo di un più dinamico modello economico? La risposta è simile a quanto è stato fatto per far diventare media istituzionali prima la radio prima e poi la TV: un servizio universale di accesso wireless con l’uso delle risorse frequenziali più efficienti (quindi delle bassa frequenze), dove la priorità istituzionale non è la banda “larga” ma la banda “garantita e sicura”. 2 megabit wireless a qualità del servizio garantita per tutti, ma davvero nessuno escluso, cittadini, imprese, istituzioni e “cose”, sono sufficienti per la gran parte delle applicazioni ICT ad alto impatto sulla produttività e sul risparmio di costi. L’accesso in fibra dovrà ovviamente rappresentare la naturale evoluzione, ma per ora ha una logica economica limitata alle concentrazioni urbane, amministrative o economiche, come i distretti industriali. Il singolo cittadino che vuole una velocità da 100 megabit per vedersi YouTube HD, li chieda ad un operatore a sua scelta e paghi i costi di infrastrutturazione, come già oggi pagherebbe l’ultimo tratto di allacciamento del gas di città.

Dei cinque fattori architetturali fondamentali, ovvero:
– Velocità
– Latenza e qualità (near-real-time)
– Ubiquità e copertura territoriale
– Always on / permanenza di segnale
– Sicurezza, nel senso di maggiore protezione dagli attacchi di malintenzionati

I più importanti ai fini della produttività economica sono gli ultimi quattro, non il primo. Per i veri “clienti” della banda larga – che sono i processi economici delle organizzazioni -, cambia di volta in volta il mix critico di fattori architetturali. Ad essere interessato alla velocità è prima di tutto l’intrattenimento, mentre la telemedicina richiede bassa latenza e l’infomobilita necessita di copertura territoriale e permanenza di segnale; per tutti i servizi basati su masse critiche e su economie di densità risulta essenziale la copertura, prima ancora che la velocità, così come le applicazioni finanziarie e quelle militari sono primariamente interessate all’ultimo fattore. Per le applicazioni ICT ad alto valore aggiunto la velocità è dunque il fattore proporzionalmente meno rilevante dei cinque.
Quindi ci serve banda buona, prima che larga; banda universale, come diritto ma anche come dovere; banda sicura e protetta, e non il far west dell’illegalità, della delazione anonima, della pirateria, dell’hackeraggio.
Dal punto di vista della gestione delle scarsità economiche, è meglio che non sia una internet fintamente neutrale, bensì una rete ben gestita che allochi le risorse secondo i principi di scarsità e di priorità pubblica.
Il web, per come è stato progettato dagli informatici, non è necessariamente anarchico, ma rischia di diventare involontariamente “comunista”. I pacchetti IP, infatti, non possono competere sul merito, ma devono ufficialmente venir trattati in logica di assoluto egualitarismo. Ma senza riconoscimento del merito non c’è possibilità di corretta allocazione di risorse scarse. I piccoli rivoli di pacchetti dati che servono per la telemedicina non possono stare in coda ad aspettare che passino i torrenti di scambi illegali di musica. Di certo l’Internet delle cose (Internet of things) non è né può essere neutrale. Per poter coordinare i tempi di intervento di un sensore ambientale ed un attuatore di un servizio di sicurezza o di telesorveglianza del traffico, o un pace maker di un paziente, non si può certo attendere i ritardi di una rete presuntamente “neutrale”.
Già oggi nelle reti di nuova generazione per la telefonia mobile, la gestione del traffico non è neutrale, perché da priorità alla voce rispetto ai dati, secondo logiche di mercato.
La fine della finta neutralità non è necessariamente l’inizio di un regime di “pizzo” legalizzato, ovvero della “Tony Soprano Internet” come la chiamano i suoi detrattori. Va creato un mercato trasparente e non discriminatorio dei livelli di servizio e quindi una competizione tra gli operatori sulle condizioni economiche degli stessi, in quanto deve consentire la migliore allocazione della risorsa scarsa costituita dalla capacità fisica della rete e dello spettro. Oggi è fintamente egualitario, perché la moneta cattiva del video sharing illegale scaccia la moneta buona dei servizi a valore aggiunto.
Il superamento pragmatico dell’ideologia della network neutrality è peraltro uno specifico interesse europeo. In USA la massa critica di utenti ha consentito di far nascere modelli di business basati sul sussidio pubblicitario e quindi compatibili con la neutralità della rete. Ma la spesa pubblicitaria ha un asintoto naturale, che è in grado di coprire solo un limitato livello di investimenti, e che è ancora più basso nel caso europeo di mercati frammentati a livello nazionale o sub nazionale.
In Europa, quindi, con il regime della network neutrality vengono a mancare gli incentivi economici per lo sviluppo di Internet. Diversamente da quanto sostengono i difensori ad oltranza della network neutrality, il fatto che i principali service providers innovativi – Google, Yahoo!, eBay, FaceBook, etc. – siano nati in USA non è dovuto alla neutralità della rete in sé, bensì alla più diretta disponibilità di fattori produttivi (capitale e lavoro) e di mercato (massa critica accessibile di utilizzatori e di domanda economica). Non ci sono prove empiriche che la presenza di specifici livelli di servizio e di qualità differenziata di trasmissione dei dati siano ostacolo per l’imprenditorialità e l’innovazione. Semmai è lecito ipotizzare il contrario, e per questo verificare pragmaticamente se la differenziazione dei livelli di servizio non possa invece aumentare le opzioni di innovazione e di sviluppo di nuove iniziative imprenditoriali. Con il superamento dell’ideologia conservatrice della network neutrality sarà possibile andare verso il concetto di Rete plurale, verso le nuove Internets.

Offerta: oltre la giungla del web, i mille giardini di internet

Dal punto di vista economico, la libertà “assoluta” del web si traduce in assenza di barriere all’ingresso lato offerta e in sostanziale opportunismo lato domanda. Poiché la contemporanea presenza di entrambe è poco compatibile con l’estrazione di un profitto economico sostenibile, l’attrattività ad investire permane bassa e crescono solo le imprese che riescono a costruire barriere all’imitazione, spesso basate proprio sul superamento dell’opportunismo degli utenti tramite meccanismi di lock-in derivanti dagli effetti di rete. Paradossalmente, l’assenza assoluta di barriere promuove la cultura negativa dell’irresponsabilità e semina i germi del monopolio de facto.
Potrebbe quindi essere opportuno favorire lo sviluppo di uno strato di Internet fatto di perimetri di servizio impegnativi e protetti: mutuando un’espressione già diffusa, si tratterebbe di “giardini”, non murati ma recintati (“fenced”, not “walled” gardens) dove l’offerta si impegna a condizioni di servizio chiare e certe. Come in ogni altro contesto economico, il negozio di un merchant deve contenere le regole del commercio, e lo scambio non avviene per strada, senza termini o garanzie di protezione per cliente e contro l’imitazione per il merchant.
Poiché il fenced garden reintroduce un fattore di scarsità spaziale, sia pure artificiale, consente di scegliersi i vicini, gestendo razionalmente le esternalità negative derivanti dalla contiguità con i contenuti-spazzatura. Per esempio, nel fenced garden di App Store le imprese possono evitare il rischio di finire affiancate a provider disonesti o di qualità detrimentale. La lezione economica è quella tratta dal mercato della pubblicità televisiva o editoriale tradizionale, dove l’inserzionista può chiedere di essere protetto dal rischio di finire affiancato – e quindi involontariamente associato – a una notizia sgradita o a una pubblicità incongruente.
D’altra parte, se il merchant colloca i propri server in luoghi extralegali, e quindi tenta di sottrarsi alla giurisdizione dello Stato di diritto, non merita fiducia. Resti pure nella giungla del web e continui a lavorare come oggi, ma non sarà il benvenuto sulla nuova Internet istituzionale. La comunità internazionale ha peraltro deciso di applicare un analogo criterio alle banche e ai loro “segreti”, per prevenire un’altra crisi finanziaria come quella che stiamo ancora vivendo: non si vede perché non si debba farlo con i service providers su Internet.
Il problema lato offerta, tuttavia, non è solo patrimoniale, ma anche economico. Internet per le imprese tradizionali e le istituzioni pubbliche finora è stata, a parte pochissime eccezioni, causa di costi aggiuntivi e non sostitutivi, e fonte di ricavi sostitutivi e non aggiuntivi.
Sul fronte dei costi, per esempio, le imprese hanno investito per 15 anni in siti web istituzionali o in piattaforme di e-commerce, ma non hanno potuto smettere di sostenere i costi della distribuzione tradizionale. La pubblica amministrazione ha speso una montagna di soldi pubblici nell’eGovernment, e le banche nell’eBanking, ma senza poter significativamente ristrutturare i costi di gestione delle proprie reti fisiche.
Sul fronte delle entrate, inoltre, ben pochi si sono rivelati i ricavi effettivamente differenziali, rispetto a quelli in “conflitto di canale”, che di fatto cannibalizzavano le vendite tradizionali.
Si tratta di un fenomeno caratteristico delle migrazioni tra diversi standard di processi economici. Finché resiste una domanda che rimane ancorata allo standard precedente (in questo caso i processi non basati su Internet), l’offerta è costretta a fronteggiare una doppia struttura di costi e un’incerta distribuzione dei ricavi. Si può accelerare l’uscita da questa inefficiente situazione economica e raggiungere una massa critica in grado di generare valore solo mettendo “fuori corso” la vecchia moneta dei processi tradizionali e forzando la domanda ad effettuare la transizione al nuovo, con un processo di switch off simile a quanto sperimentato con la TV digitale terrestre. E’ quindi necessario intervenire sul lato della domanda.

Domanda: a servizio universale deve corrispondere dovere universale, elemento di cittadinanza

Ad un diritto legittimamente invocato, come quello della libertà, deve corrispondere un dovere civico ed economico, per assicurare che sussistano le condizioni pratiche per l’esercizio sostanziale di tale diritto.
Oggi possiamo affermare che chi non usa Internet produce esternalità negative e quindi genera illegittimamente un costo sociale, che è quello di gestire tale “eccezione” con tecnologie e processi tradizionali, duplicando i relativi costi. Usando una metafora moderna, chi non usa Internet emette CO2 organizzativo.
Chi si ostina a non usare Internet per l’eGovernment, l’infomobilità, la telesanità, l’eLearning e le smart grids, impone alla collettività oneri impropri di manutenzione di infrastrutture logistiche obsolete ed ingiustificabili, con elevati e ormai insostenibili costi sociali, che vanno a sottrarre risorse alla ricerca e allo sviluppo. Una volta garantita la copertura universale, costoro non devono poter continuare a farlo opportunisticamente, essendo addirittura pietiti da chi li considera poveri sfortunati. Intanto che l’infrastruttura di Internet cresce verso l’accesso universale, chi ancora non sa si faccia parte diligente per imparare, e semmai chieda aiuto da tutti gli altri, e dallo stesso Stato se necessario. Ma smetta di essere zavorra della Nazione. Sarebbe come accettare che qualcuno, per evitarsi l’oggettiva scomodità di comprarsi il decoder, costringa di fatto le TV a trasmettere ancora in analogico per gli anni a venire, bloccando l’uso delle frequenze per altri scopi.
Internet è quindi, analogamente a quanto accade nel caso di un’istituzione, un consorzio obbligatorio della domanda, un dovere civico e quindi potenzialmente un obbligo di cittadinanza.
Chi non vuole adeguarsi sia libero di farlo, ma deve essere pronto a farsi carico dei costi sociali della propria scelta. Ciò può avvenire con diverse forme, a partire da una chiara differenziazione del costo dei servizi pubblici – scuola, sanità, trasporti, ecc. – fino ad arrivare ad asimmetrie fiscali penalizzanti.
Tale processo ha illustri precedenti nei rapporti con le imprese: il Ministero delle Finanze ha già di fatto imposto uno standard digitale forzoso per i processi di dichiarazione fiscali e tributaria, e in ciò si è qualificato come all’avanguardia in Europa.
Chi vuole servizi dallo Stato si attrezzi con le nuovi condizioni culturali di cittadinanza. Se gli mancheranno i pochi euro che costerà tra non molto una tablet 3G lo aiuteremo. Se non saprà come usare un touch screen glielo spiegheremo in televisione, dalla mattina alla sera, novelli Alberto Manzi della sintassi digitale. Se questo è nuovo analfabetismo, impedimento alla crescita nazionale, allora è legittima l’azione affermativa della mano pubblica.
Per creare le opportune condizioni economiche sul lato della domanda, l’accesso dovrebbe infine richiedere un’autenticazione certa dell’attore, sia esso individuo o organizzazione. Il biglietto di ingresso in questa Internet istituzionale, insieme servizio universale e condizione di cittadinanza, dovrebbe quindi essere basato su criteri di strong authentication, come già sperimentato con successo nel campo della telefonia mobile, che prevede l’uso di una SIM registrata ed identificabile. Ciò non solo non ha finora rappresentato un ostacolo alla diffusione, ma al contrario ha creato le condizioni di un mercato dinamico e innovativo. Non si tratta di una novità assoluta, peraltro: già oggi il tasso di crescita maggiore dei nuovi accessi ad Internet avviene tramite operatori mobili, che per concederlo lo associano ad una SIM. Semmai è pensabile introdurre un modello di accesso che dove la SIM sia di proprietà del cliente finale, e non dell’operatore che la concede, velocizzando quindi i processi di migrazione e portabilità. Un’Internet istituzionale basata su accesso tramite SIM può facilitare l’affermarsi di modelli economici più articolati, come ad esempio il revenue sharing tra content provider e utenti e la retrocessione di valore all’utente, come già oggi avviene con gli operatori di telefonia mobile che propongono piani tariffari con la cosiddetta autoricarica, ovvero la parziale retrocessione al cliente delle tariffe di terminazione.
L’anonimato dell’accesso, falsamente propagandato come condizione irrinunciabile per la libertà di espressione, è in realtà solo un fragile simulacro, potendo come noto essere soggetto ad azioni di investigazione da parte dei poteri dello Stato o di intercettazione più o meno legale da parte di attori tecnologici senza troppi scrupoli. In compenso l’anonimato costituisce un ostacolo grave per gli investimenti privati, specialmente da parte di aziende con forte brand equity e come tali esposte ad un elevato rischio reputazionale a causa dell’impossibilità pratica di proteggersi dai rischi di diffamazione perpetrata da anonimi detrattori, quando non direttamente da concorrenti sleali.
Questa Internet ad accesso autenticato deve affiancarsi e non sostituirsi all’attuale web ad accesso libero e anonimo, che può continuare ad esistere come luogo della sperimentazione, di libertà espressiva e di sostanziale anonimato economico. Wall Street e Las Vegas sono entrambi modelli di mercato legittimi, ma è certamente il primo a rappresentare una base relativamente migliore per lo sviluppo economico.

Internet come nuova Europa, laboratorio di diritto pubblico internazionale

L’Europa è il luogo perfetto per la nascita della nuova internet istituzionale. Ha la tradizione di gestione della complessità, ed è stata la sede della più grande innovazione tecnologica mondiale del secolo scorso, che non è Internet ma la telefonia mobile su standard GSM. È dal secondo dopoguerra la nave scuola mondiale della condivisione della sovranità da parte degli Stati, il nuovo laboratorio di diritto pubblico internazionale multilaterale. Se non riusciamo più ad esportare infrastrutture tecnologiche, almeno continuiamo ad esportare istituzioni giuridiche, come l’Europa ha fatto per secoli.
Senza diritto non c’è mercato, non c’è economia moderna ma solo sopraffazione e rendita monopolistica. L’ebbrezza della libertà continuerà ad essere assicurata dal web, che proseguirà la sua vita anarchica e indipendente, extragiuridica, luogo di sperimentazione e di rischio, di infami agguati e di scoperte straordinarie.

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